Una riflessione originale
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Alassan odia le strade, perfino quella tutta buche e fossi che ne abusa il nome per andare dalla capitale ad Agadez. Forse ha ragione quando dice che la strada è il primo vincolo che l'uomo ha imposto alla libertà.
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Quando un Paese comincia a lasciarsi avvincere dalle strade come da una grande rete, significa che gli abitanti hanno fretta, non sono più padroni del loro tempo. Non conoscono più viaggi simili a sogni attraverso dune silenziose e montagne piene di luce e di echi.
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La strada dice all'uomo, al tuareg: tu devi passare di qui! E lo condanna a camminare con regolarità accasciarne sopra una striscia eguale, sterile e senza fine. Un'ora di viaggio è simile all'altra, un giorno è simile all'altro.
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Si perde l'abitudine all'osservazione, il senso dell'orientamento, la facoltà di comprendere gli avvertimenti della natura, quel linguaggio eloquente delle cose che fa divinare al nomade i passaggi e i pericoli, che fa leggere nelle orme della sabbia la vicinanza di un nemico, che nelle ombre delle rocce e degli alberi dice l'ora del giorno. «A poco a poco la strada ci ha privato di questo grande dialogo tra la nostra anima e Dio, camminiamo tristemente, noi che eravamo i signori della terra, su quell'infinito nastro di melanconia che non ci lascia altra occupazione che meditare la causa di tutti i nostri dolori».
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Domenico Quirico, Il grande califfato, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2015. pp 154