Ho faticato un po' ma mi son fatto un'opinione "matura" su questa parabola.
E' stata una ricerca pesante sia sui libri di esegesi in mio possesso che su pagine e pagine web ma credo di aver trovato una soluzione che rende questa parabola logica e in armonia con il messaggio evangelico.
La brevità richiede sintesi e purtroppo finisce per patirne la chiarezza, ma non credo ci siano alternative, me ne scuso con gli eventuali lettori.
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La parabola della zizzania è pregna di significati, merita attenzione, e più ci indago intorno più condivido quanto espresso da Paolo VI nell'omelia dell'8 novembre 1954: "nel riascoltarla siamo colpiti dalla vivida ricchezza e dalla vastità di dottrina che il brano contiene; dalla quantità di questioni a cui risponde, sì che, ben può dirsi, esso sembra condensare in visione sintetica, lineare, nientemeno che l’intero panorama del mondo."
Poiché convinto che non sia sufficiente ascoltare ma che si debba comprendere per poter poi fare e agire per portare frutto, ho continuato nella mia ricerca per capire la parabola della zizzania, che Matteo, nel raggruppare le parabole di Gesù che le prime comunità conservavano, ha posizionato subito dopo quella del seminatore.
Ma è proprio questa involontaria vicinanza delle due parabole (seminatore-zizzania) porta a pensare che non sia corretta l'interpretazione che l'evangelista Matteo si preoccupa di fornirci (Mt 13, 36-43), penso sia un suo sentire molto personale, interpretazione ovviamente poi assunta dalla Chiesa ufficiale. Questo dubbio sulla correttezza dell'interpretazione ufficiale non è solo mia, più di qualche studioso considera questi versetti aggiunti, non dettati da Gesù ma frutto di mentalità e opinioni del periodo.
Cosa cambia?
Cambia che, come per il seminatore, il campo dove avviene la semina non è il mondo (come da versione ufficiale) ma il nostro cuore, la nostra mente, le nostre convinzioni, i principi su cui fondiamo le nostre decisioni, la filosofia della scienza onnipotente.
Non è fuori di noi che dobbiamo guardare, non sono gli altri che dobbiamo giudicare ma noi stessi. Il nostro compito non è giudicare il mondo e convertirlo, ma far si che le spighe di grano seminate in ognuno di noi giungano a fine stagione numerose e gonfie di chicchi, cioè vittoriose nella lotta sotterranea con chi ci contende ogni minimo spazio vitale, deviando su di sé ogni nostra energia.
Una lotta a cui non possiamo sottrarci, anche perché alla fine saremo giudicati nudi, spogli degli addobbi con cui avevamo colorato il nostro campo. Denudati dalla zizzania che ci portiamo addosso, sia essa oro o cultura o potere o beltà, tutto inutile e tutto finirà sul fuoco.
E in questa lotta siamo soli e perciò liberi. Soli ma non liberati dall'astuto e potente nemico. Ecco perché nel Padre nostro concludiamo dicendo "non abbandonarci alla tentazione ma liberaci dal male" (Trad. CEI 2008)
Forse è questo (o almeno mi piacerebbe pensare che sia) il significato di questa strana parabola contadina. Non ci consiglia di guardarci intorno cercando la pianta diversa da noi per valutarne la pericolosità, ma di guardarci dentro per capire se siamo nella corretta strada o fino a che punto sia corretta. Poi... poi niente è impossibile a Dio.