Brano estratto dal libro
di Carlo Maria Martin, Vivere i valori del Vangelo,
(Einaudi, 2009)
Riflessioni sul Libro dei Giudici, dedicate a Sua Eccellenza Monsignor Alojzij Šustar, nascono dalla consapevolezza che oggi, forse piú che in altri tempi, il cristiano è chiamato a vivere i valori del Vangelo in ogni situazione umana, per quanto oscura, confusa e difficile, e a vedere con gli occhi della fede in ogni evento, per quanto doloroso e drammatico, la presenza di Dio che guida e conduce la storia.
Una pagina nera nella storia di Israele.
(…) L’epoca dei Giudici può essere qualificata come un periodo di difficile e molteplice transizione: dallo stato nomade a quello sedentario; ma anche da uno stato di anarchia e di iniziativa dei gruppi a quello di una organizzazione comune; e ancora, come un delicato passaggio da una generica percezione di unità spirituale a una convinzione che erano necessarie autorità stabili, riconosciute e accettate. Inoltre ci si stava orientando verso un’embrionale coscienza di popolo destinata a farsi salda e duratura soltanto sotto Samuele, Saul e Davide. La direzione futura era quella di una conquistata indipendenza e libertà.
Ma Israele è per ora un volgo disperso, alla ricerca di un nome; ha, di per sé, un nome sacro, nel quale talora si ritrova, però non riesce a creare una profonda compattezza. E il Libro registra l’alternarsi di sentimenti umani perenni: depressione, paura, sconcerto, divisione e fierezza, ripresa di coraggio, speranza, voglia di unità, tentativi di impegno per realizzarla.
In ogni caso, nonostante le incertezze che permangono sulla redazione di questa opera, essa è per lo storico la sola fonte di informazioni per il confuso e complesso periodo di transizione che va dalla morte di Giosuè all’avvento della monarchia, un periodo di grande importanza nella storia della salvezza. Per l’uomo biblico, invece, dice qualcosa di piú: fin dai testi piú antichi che compongono il Libro, come il bellissimo canto di Debora, può scoprire che il Dio d’Israele è Colui che sostiene il suo popolo nelle ore difficili e buie, è il vero autore della salvezza per mezzo di un liberatore da Lui inviato. Nello stesso tempo si comprende il rischio che incorre Israele ribellandosi a Jahvè.
Le risposte possibili ai problemi del popolo.
Se riflettiamo attentamente, ci accorgiamo che le ipotesi di risposta alla situazione storica dolorosa che Israele viveva erano fondamentalmente due.
La prima – che piú tardi sarà la tentazione del popolo (pensiamo alla nuova scissione in due tronconi dopo il regno di Salomone) – era di conservare il meglio possibile le caratteristiche di indipendenza locale e tribale, salvo mettersi insieme nei casi di gravi minacce e di forza maggiore.
La seconda risposta poteva essere di intraprendere un faticoso cammino verso l’unificazione, un’unificazione che avrebbe comportato anche la centralizzazione del potere e quindi una certa rinuncia a ciò che le si opponeva.
La risposta provvidenziale.
Le due risposte sono le strade storiche che Israele ha percorso con alterne vicende e poi sfociate nella monarchia.
Noi però vogliamo comprendere qual è la risposta provvidenziale che ci offrono i racconti dei Giudici nel Libro omonimo in quanto ispirato da Dio.
Naturalmente non è di tipo puramente politico o organizzativo; in questo senso – l’ho già sottolineato – il Libro ci informa sui giorni difficili in cui si tentava un’azione comune contro i nemici e sui giorni tranquilli in cui ciascuna tribú riprendeva la propria autonomia.
Si tratta di una risposta a livello di interpretazione teologica: le calamità politiche a cui il popolo va ripetutamente incontro sono dovute alla dimenticanza di Dio e della sua alleanza. Ciò che tiene insieme le tribú non è primariamente l’organizzazione politica, bensí i grandi valori comuni, e la loro perdita conduce inevitabilmente alla disunione, al disordine, all’oppressione.
Il Libro dei Giudici, dunque, non fornisce una soluzione politica, anche se descrive un processo politico; esso individua nella situazione religiosa e morale la radice di tutto quanto accade. In proposito, vorrei citare quel brano del capitolo secondo di cui ho richiamato i vv. 11-12 nel primo punto della riflessione
Gli Israeliti abbandonarono il Signore, Dio dei loro padri, che li aveva fatti uscire dal paese d’Egitto e seguirono altri dèi di quei popoli che avevano intorno: si prostrarono davanti a loro e provocarono il Signore, abbandonarono il Signore e servirono Baal e Astarte. Allora si accese l’ira del Signore contro Israele e li mise in mano a razziatori, che li depredarono; li vendette ai nemici che stavano loro intorno ed essi non potevano piú tener testa ai nemici… Gli Israeliti furono ridotti all’estremo. Allora il Signore fece sorgere dei giudici, che li liberavano dalle mani di quelli che li spogliavano. Ma neppure ai giudici davano ascolto, anzi si prostituivano agli altri dèi e si prostravano davanti a loro. Abbandonarono ben presto la via dei loro padri, i quali avevano obbedito ai comandi del Signore: essi non fecero cosí. Quando il Signore suscitava loro dei giudici, il Signore era con il giudice e li liberava dalla mano dei loro nemici durante tutta la vita del giudice; perché il Signore si lasciava commuovere dai loro gemiti sotto il giogo dei loro oppressori. Ma quando il giudice moriva, tornavano a corrompersi piú dei loro padri, seguendo altri dèi per servirli e prostrarsi davanti a loro, non desistendo dalle loro pratiche e dalla loro condotta ostinata (vv. 12-19).
Avevo pure ricordato il versetto 7 del capitolo terzo spiegando il modello schematico scandito dalla sequenza: peccato, castigo, pentimento, salvezza. Questa è in sintesi l’interpretazione teologica del Libro: c’è una retribuzione, per la quale anche le vicende politiche sono rette da giudizi di valore e, di conseguenza, esiste uno stretto rapporto tra l’adesione ai valori comuni della tradizione e la capacità del popolo di essere libero e unito.
Gli insegnamenti del Libro dei Giudici per un tempo di transizione.
Gli eroi del nostro libro sono radicati in un tempo in cui i costumi erano rozzi e anche le condizioni descritte dal redattore dei racconti sono molto lontane dalle nostre.
Eppure il Libro dei Giudici ci offre qualche lezione generale certamente valida per ogni epoca, specialmente per un tempo di passaggio da un equilibrio di forze tale da creare un’impressione di quasi immobilità a un rimescolamento delle carte che rischia di mettere in pericolo l’equilibrio e la distribuzione armonica dei poteri; mentre non si intravedono con chiarezza i passi che ci attendono e non mancano apprensioni per i valori piú elementari di una vita democratica.
Al di là, delle situazioni temporali e della teologia anticotestamentaria espressa nel Libro, noi vogliamo cogliere gli insegnamenti validi e perenni. Ne indico almeno quattro.
1. Nessun momento, anche se di transizione o di incertezza, di nebbia e di notte, è fuori dal disegno di Dio, è privo di un senso provvidenziale. Ogni epoca è tempo di grazia, è un kairòs che apre alla fiducia nell’esistenza di un cammino di pacificazione per i singoli e per un popolo, per l’insieme dei popoli.
2. Tale cammino provvidenziale va però cercato e scrutato attentamente. Non è infatti il risultato della semplice sommatoria dei fatti presi in se stessi, i quali possono anzi apparire poco sensati o insensati o addirittura assurdi. Il cammino viene invece trovato mediante una costante e seria ricerca dei valori comuni, dei significati profondi dello stare insieme, dei grandi fini dell’azione sociale e politica. Solo tenendo alto e largo l’orizzonte dei valori, si diventa capaci di orientarsi nei momenti di smarrimento.
3. Proprio nei periodi di transizione, la gente è piú sensibile alle grandi proposte e alle impegnative sollecitazioni. Non bisogna perciò cedere alla tentazione di rimandare a un domani piú tranquillo e piú sicuro il richiamo agli ideali umani fondamentali.L’esperienza conferma che nei momenti di transizione sono maggiormente efficaci gli appelli religiosi e morali; non «moralistici o confessionali», ma appelli misurati sulla vastità della crisi e sull’urgenza di scelte e di decisioni coraggiose.
4. Un ultimo insegnamento possiamo ricavarlo dal significato piú profondo e, per cosí dire, piú velato del Libro dei Giudici, Libro che in realtà è stato ben poco utilizzato sia nella predicazione sia nella liturgia. Lo stesso Nuovo Testamento lo cita raramente.
Tuttavia, il capitolo undicesimo della Lettera agli Ebrei ne coglie una lezione di fondo complessiva, là dove esalta l’esemplarità del ruolo della fede nella storia della salvezza. Dopo aver rievocato le grandi figure di Abele, Enoch, Noè, Abramo, Giacobbe, Esaú, Mosè e Raab, l’autore si chiede: «E che dirò ancora? Mi mancherebbe il tempo se volessi narrare di Gedeone, di Barak, di Sansone, di Iefte, di Davide, di Samuele e dei profeti» – personaggi dell’epoca dei Giudici e di quella immediatamente successiva – . «Essi per fede conquistarono regni, esercitarono la giustizia, conseguirono le promesse, chiusero le fauci dei leoni, spensero la violenza del fuoco, scamparono al taglio della spada, trovarono forza nella loro debolezza, divennero forti in guerra, respinsero invasioni di stranieri…» (vv. 32-34).
A me pare di notare, in questa pagina, una differenza e un superamento rispetto all’antico Libro dei Giudici pervaso dalla teoria della retribuzione, dall’idea che le calamità sociali sono dei castighi di Dio dovuti alla rottura dell’alleanza da parte del popolo.
Il capitolo undicesimo della Lettera agli Ebrei afferma che, al di là del principio della retribuzione, la legge fondamentale che può guidare nella storia è la fede. Sappiamo del resto, che la Lettera è indirizzata a comunità giudeo-cristiane disorientate e minacciate di scoraggiamento di fronte a nuove e inimmaginabili difficoltà, per sollecitarle a uscire dallo scoraggiamento e a compiere uno sforzo serio di approfondimento nella fede di Cristo Gesú.
La fede, dunque, è la base della vita: lo è stata nella vita dei Giudici che combattevano allo scopo di liberare il popolo; lo è stata e continua a esserlo nella vita dei santi, dei martiri, dei veri testimoni di Dio, di tutti i fedeli sconosciuti che soffrono per la giustizia.
Questo è un insegnamento molto alto. Il criterio dell’uomo evangelico, del discepolo autentico di Cristo, non è la vittoria storica immediatamente verificabile, bensí lo sguardo verso l’invisibile e la certezza che alla fine la storia sarà giudicata da Dio e noi saremo giudicati sulla nostra sincera adesione a Lui, al di là di ogni successo o insuccesso nel mondo presente.
Si tratta di un atteggiamento assai valido per il tempo che stiamo attraversando. Solo la rettitudine della coscienza e la fede nel Signore della storia pagano fino in fondo e guidano singoli e popoli verso quei cammini di giustizia che non deludono e non verranno mai meno.
Questi insegnamenti tratti dal Libro dei Giudici valgono per ogni tempo, in particolare per i momenti oscuri che stiamo vivendo in Europa. Essi sono di aiuto a tutti, ma in modo speciale ai Vescovi che debbono aiutare le nostre popolazioni europee ad attraversare tempi difficili. Tocca a loro dare criteri evangelici per giudicare i fatti della vita e indicare nella Parola di Dio il riferimento delle coscienze.