Una parola chiara sul pensiero di Emmanuel Levinas
Breve estratto dall’intervista di Bachisio Meloni alla Prof. Irene Kajon (Ordinario di antropologia filosofica all’università di Roma1), in margine al Convegno internazionale di studi dedicato a ““Visage et Infini. Analisi fenomenologiche e fonti ebraiche in Emmanuel Levinas”, Roma Maggio 2006, per il centenario della nascita del filosofo.
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Jacques Derrida nel suo intervento commemorativo e celebrativo di Adieu à Emmanuel Lévinas dichiara che “il risuonare di questo pensiero ha cambiato il corso della riflessione filosofica del nostro tempo, e della riflessione sulla filosofia”.
Le chiedo pertanto: dove risiedono, secondo Lei, le ragioni più profonde della grandezza di questo pensiero, e in che cosa consiste il carattere straordinario dell’opera levinasiana?
Sono assolutamente d’accordo con il giudizio che Derrida esprime sul pensiero di Levinas. È vero che questo pensiero, seguito dal suo risuonare in varie lingue (in inglese, tedesco, italiano, spagnolo, ebraico, oltre che in francese) e in vari ambienti intellettuali, ha cambiato il corso della riflessione filosofica contemporanea e ha influito sulla riflessione intorno al concetto stesso della filosofia.
Mi sembra che la novità del pensiero levinasiano consista nella radicalità con la quale esso pone il tema di un “altrimenti” rispetto all’“essere” come la dimensione nella quale soltanto l’uomo diventa veramente uomo, acquista la sua umanità.
“Essere” per Levinas è
- non soltanto il regno dei fenomeni, siano essi fatti della natura o eventi storici, i quali si manifestano ai sensi e vengono conosciuti dalla ragione rivolta alla determinazione di oggetti, o di contenuti,
- ma anche la sfera del sovrasensibile, quando questo assume l’aspetto di Dio come Ente sommo o di un al di là delle anime contrapposto al tempo.
Levinas è un critico
- tanto dell’empirismo o materialismo filosofico, poiché esso rende l’uomo dipendente dalle cose, dalla storia, dalla natura,
- quanto della teologia naturale, poiché essa richiede che l’uomo, comprendendo o intuendo l’Assoluto o l’Incondizionato, si subordini poi a questo.
Filosofie dell’“essere” sono per lui
- sia le filosofie che inchiodano l’uomo alla nascita, al destino, alle inclinazioni naturali, alla situazione storica o esistenziale – da Epicuro a Hume a Sartre –
- sia le filosofie che lo pongono al servizio di un Dio ben definito o evocato nella mistica o nella poesia – da Tommaso d’Aquino a Heidegger.
Per Levinas tutte le filosofie dell’“essere” sono filosofie dell’“identità”: al fondo del soggetto che si radica nella natura o nella storia o che trova la sua quiete in un Dio concepito come fondamento assoluto o avvertito nel sentimento come sacro, vi è a ben vedere il terrore del rischio, dell’avventura, del nomadismo, di tutto ciò che sconvolge il consueto e rassicurante.
Quella di Levinas è una filosofia della libertà: ma libertà è per lui
- non innanzi tutto la capacità di autodeterminarsi, di scegliere, la spontaneità nell’agire,
- ma la responsabilità che ciascun “io” ha nei confronti dell’“altro uomo”, l’altro uomo che è di fronte a lui, che gli appare, e che tuttavia non è rinchiuso nel mondo fenomenico.
L’“altrimenti che essere” è l’etica: qui l’“io”
- qui l’“io” non è il soggetto soddisfatto, dotato di buona coscienza, che rivendica i suoi meriti, o che approfitta degli eventi per affermare ogni volta se stesso, oppure che trova dentro di sé il divino, caro alla tradizione filosofica e teologica,
- ma il soggetto che ha doveri, prima che diritti, consapevole delle sue colpe, abitato in certo modo dall’“altro”, intimamente animato, non stabile, mai privo di rimorsi.
La religione per Levinas si identifica con l’etica: Dio si delinea nell’incontro con l’“altro uomo” come lontana e mai afferrabile origine di comandamenti incondizionati – dal non esercitare violenza al soccorso nel nutrire, ospitare o curare.
La sfera dell’“essere” – la quale implica il confronto mediante la ragione, dunque la giustizia, lo Stato, le nazioni, i rapporti tra le nazioni e tra gli Stati, la politica come campo delle mediazioni – si apre solo a partire da quella dell’“altro” da “essere”, la quale riguarda la dimensione “io”-“altro”.
La filosofia levinasiana radicalizza l’idea della ragione pratica e il primato della ragione pratica affermati dalla filosofia kantiana:
Levinas esprime in modo più evidente di Kant, il quale specie nella Critica del Giudizio rimane legato alla tradizione metafisica,
- l’anteriorità dell’etica rispetto alla conoscenza,
- il “tu devi” come unico modo che l’uomo ha di entrare in contatto con la sfera dell’eterno o intelligibile (il noumenico),
- la critica del naturalismo e sentimentalismo nella vita morale.
Come Kant, Levinas è rigoroso e in modo sobrio – contro ogni romanticismo – si appella alla ragione in etica. La ragione pratica, affermata da Kant, coincide con quella capacità dell’uomo di formare il suo “io” soltanto a contatto con l’“altro uomo” che Levinas accentua, facendo uso di iperboli.
Ma egli si richiama, oltre che a Kant, anche ad altri pensatori, in particolare il Platone del bene “al di là dell’essenza” e il Descartes che scopre in Dio ciò che è oltre l’“ego cogito”. Tuttavia, Levinas vede la storia della filosofia – da Parmenide a Hegel alla crisi dello hegelismo, dai primordi in Grecia fino al Novecento – segnata dalla ricerca rivolta all’“essere” più che all’“altrimenti che essere”. Perciò egli indica anche alla filosofia la necessità di pensare di nuovo se stessa, come Derrida dice nella sua commemorazione.