Caro F***
ho letto e riletto la lettera di Don Patricello (di cui mantengo copia qui sotto) e son giunto alla conclusione che l’unica cosa che condivido è il giudizio di cecità verso i dirigenti (vescovi o altro) che come al solito e come dappertutto “cadono dalle nuvole”. Appare evidente che nel caso specifico c’è stata almeno ingenuità colpevole. Il resto della lettera del reverendo Patricello non la condivido, avverto una mentalità vecchia e soprattutto si piange addosso senza prospettive.
Partiamo dalla premessa quando scrive “Non è, e non deve essere, un superuomo, il prete, ma nemmeno una persona che si trascina dietro problemi esistenziali mai risolti. Deve essere semplicemente un uomo innamorato di Gesù, che trova la sua gioia nel servire i fratelli.”
Questa frase è vera, ma è arroganza clericale, perché non solo il prete ma ogni cristiano se vuole essere tale deve tendere a rientrare in questa definizione. Cioè a essere uomini veri, con idee chiare e con le palle per essere di esempio al “mondo”. I sacerdoti tuttalpiù sono capocordata ma con la consacrazione non sono divenuti di un’altra razza. L’hanno chiamata carisma o “grazia di stato” (recita il Catechismo al #2008) ma probabilmente è il normale adattamento al ruolo, le “fisic du rôle” che il tempo regala. Quindi devono smetterla di sentirsi diversi, è finita l’epoca del paese con i tre cervelli: il parroco, il medico e il farmacista.
Poi Don Patricello continua la sua lettera parlando di solitudine, per reclutamento, per formazione, per mancanza di sostegni esterni. E’ vero ce lo siamo detto tante volte anche noi (P***) quando c’eravamo dati l’obiettivo di adottare in amicizia un P***-dentro, coglievamo allora le ombre che aumentavano con l’età per i nostri vecchi amici.
Il matrimonio non sono rose e fiori, non per nulla più di alcuni ricorrono al divorzio, ma il matrimonio non è solo sesso, è famiglia e quindi è una qualche protezione, anche se capita di litigare, ma è qualcuno con cui parlare e dove ci si accudisce a vicenda. Ma l’immagine del prete quasi clochard non mi piace.
E’ mio parere che sarebbe il caso di ripensare l’istituzione, senza pregiudizi o appigli scritturali visto l’origine puramente storico-economica della legge sul celibato.
Tempo fa ho letto il libro di Peter Brown (Per la cruna di un ago. La ricchezza, la caduta di Roma e lo sviluppo del cristianesimo, 350-550 d.C., Einaudi, 2014) che affronta il problema dei soldi nella chiesa in quei primi due secoli post-costantiniani e vi coglie anche una spiegazione storica del celibato dei preti.
Brown racconta che la Chiesa alla fine del IV secolo si è scoperta piena di soldi da lasciti e regalie ma avvertiva pure che soldi-fede non legavano. Si sviluppò una vasta letteratura sul tema a partire da Agostino, finché la sempre fine diplomazia ecclesiastica trovò la soluzione nel concetto di “distacco”, pur mantenendone il possesso. Così Brown scrive nell’ultimo capitolo:
Un ideale distacco dalle cose terrene riuscí infatti a neutralizzare il fascino della ricchezza, senza però eliminare la ricchezza stessa.
Anzi, quell’ideale distacco rafforzò in modo impercettibile l’idea che se la ricchezza esisteva, era per un valido motivo esisteva per essere utilizzata, per essere amministrata in modo razionale ed efficiente per il bene della chiesa.
Detto senza mezzi termini, alla ricchezza venne affidato uno scopo piú alto. Essa irruppe nell’immagine pastorale della Chiesa e fu sottoposta a «un potere che guida verso un fine e agisce da intermediario rispetto a questo fine».
[Ancora il card. Becciu non era nato, ma non è l’unico esempio citabile].
Ma ogni cosa ha un suo prezzo!
I sacerdoti [quelli di campagna, i più] a cui era affidata la cura di queste chiese modeste avevano poco da offrire in termini di cultura o di predicazione. In compenso, celebravano la messa e, al fine di condurre in modo appropriato la liturgia – per conto dei loro benefattori e di una congregazione probabilmente costituita in gran parte dai contadini che lavoravano le terre di questi ultimi –, dovevano essere puri e casti.
Il celibato era l’unico elemento che distingueva i rappresentanti di questo «proletariato clericale» dai contadini tra i quali vivevano. Come preti-contadini, il celibato era il loro unico segno distintivo di alterità.
Con lo sguardo severo di persone che avevano pagato per l’intercessione, i protettori laici dei sacerdoti sorvegliavano attentamente quel celibato affinché non vi fossero trasgressioni.
Concludo che ci sono atti e convinzioni legati a momenti storici e che sarebbe corretto revisionare periodicamente. Non tutte le consuetudini debbono essere difese ad oltranza con argomentazioni che rasentano il sofisma. Ad esempio non credo siano più liberi. I tempi cambiano, bisogna prenderne atto e intervenire, visto che non si tratta di dogmi ma di consuetudini sorte per necessità del momento.
Piuttosto condivido il pensiero di Tillich quando dice che “La tradizione è buona. Il tradizionalismo è cattivo”, ma soprattutto che l'ideale di fede che viviamo oggi è “un cristianesimo irrilevante per la società, non ha a che fare con l'interesse e la passione. Fu Hegel a dire che senza di questi non avviene nulla di grande nella storia” [… e nella vita].
Ciao F*** e ciao a tutti quelli che hanno avuto la pazienza di leggermi, pur senza condividere il mio sentire, anzi con loro mi scuso per alcune mie frasi poco diplomatiche.
Piero Azzena
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(Ricevuto da F***, mail del 16 settembre 2021)
Riflettere sul caso di Prato.
Non chiudere gli occhi sui problemi dei sacerdoti
Non è, e non deve essere, un superuomo, il prete, ma nemmeno una persona che si trascina dietro problemi esistenziali mai risolti. Deve essere semplicemente un uomo innamorato di Gesù, che trova la sua gioia nel servire i fratelli. Nella Chiesa cattolica di rito latino il prete deve rinunciare ad avere una sposa e dei figli con cui camminare insieme.
A qualcuno questa rinuncia appare disumana, e potrebbe esserlo, qualora fosse imposta e subita. Viceversa, si trasforma in libertà, se accolta come un dono. Nel campo della fede, però, le illusioni, con le conseguenti, amare, delusioni, sono all’ordine del giorno. Occorre un serio discernimento, da parte della Chiesa locale, per valutare le motivazioni profonde dei postulanti.
Negli anni passati, la fame, le guerre, le famiglie numerose, sovente, spingevano un ragazzo a intraprendere la strada del seminario. Oggi non è più così. Le famiglie numerose sono solo un ricordo dei tempi andati, per far fronte alla povertà ci sono altre strade da imboccare, eppure accade di leggere certe notizie su alcuni preti che lasciano interdetti.
Ultima in ordine di tempo, a Prato. Don Francesco Spagnesi, viene messo agli arresti domiciliari per importazione e spaccio di droga. Sconcertante. Avvilente.
- Perché mai don Francesco scelse la via del sacerdozio?
- Era cosciente dei suoi limiti e dei suoi problemi o sono arrivati dopo?
- Fu fatto un buon discernimento prima della consacrazione?
- Fu seguito negli anni del suo ministero?
Non oso immaginare lo stato d’animo dei fedeli, quelli saldamente ancorati alla fede, e, soprattutto, quelli che poco o niente frequentano le nostre assemblee. Inutile – e dannoso – fingere di non capire, una notizia del genere svilisce e adombra il lavoro serio di decine di confratelli.
Il bene, si sa, non fa rumore a differenza del baccano che ti combina il male.
La diocesi di Prato, in una nota, tra l’altro, ha scritto che «nessuno avrebbe mai potuto immaginare che avesse problemi di tossicodipendenza». A tal punto che avrebbe usato le offerte – sacre! – per i poveri per fa fronte ai pagamenti.
Ed è su questo aspetto che vorrei, con carità pari alla parresia, riflettere. I preti diocesani vivono da soli. Chi ha la fortuna di avere ancora i genitori può contare sul loro aiuto; chi, al contrario, ha già detto loro addio, deve organizzarsi la vita e non sempre è facile.
Ai nostri vescovi le difficoltà cui far fronte non mancano. Le esigenze del popolo aumentano, i preti diminuiscono; nel clero diocesano i vecchi superano di gran lunga i giovani, le forze vengono meno mentre si moltiplicano gli ambiti in cui occorre essere presenti.
Si aggiunga il complesso contesto odierno in cui si esercita la propria missione. No, vi assicuro, non è facile, oggi, essere prete, ma è incredibilmente bello e interessante.
A certe condizioni, però, sulle quali non può soprassedere né il diretto interessato né la Chiesa locale.
- Prima condizione: chi bussa alla porta del seminario deve essere una persona profondamente onesta, fragile magari, ma onesta. Una persona amante della verità, che mai ricorrerebbe alla menzogna. Umile, cioè capace di chiedere aiuto nel momento del bisogno. Una persona cosciente di essere stata 'mandata'.
- La diocesi – non sempre, purtroppo, accade – deve essere in grado di esaminare attentamente il postulante, prepararlo, formarlo, ma anche deve avere il coraggio, nel momento in cui si accorge che la strada è un’altra, di invitarlo a desistere.
- Occorre resistere alla tentazione delle facili vocazioni per 'bisogno di clero'. Ci sono chiese senza pastori? Con le lacrime agli occhi e la preghiera sulle labbra, si cerchino altre soluzioni. Chiudere gli occhi sui problemi non risolti di un aspirante prete oggi, vuol dire spalancarli sgomenti domani sugli scandali che provoca. Scandali il cui prezzo sarà pagato non solo dal diretto interessato e dal clero locale ma dalla Chiesa tutta. Il dramma immenso dei preti pedofili ha pesato e continuerà a pesare sulle persone coinvolte e sulla Chiesa più di quanto possiamo immaginare.
Mi sia consentito, però, di porre a me stesso e ai miei confratelli sparsi per l’Italia una domanda: com'è possibile che un prete, a capo di una comunità di fedeli, sia precipitato nell’abisso della tossicodipendenza e dello spaccio e non ce ne siamo accorti?
Possiamo dire, attingendo alla più aspra e caritatevole parresia, che forse – e dico forse – lo abbiamo lasciato solo?
Maurizio Patricello giovedì 16 settembre 2021
(Ricevuto da Fantino Mincone, mail del 16 settembre 2021)