Le letture della liturgia di domenica 15 settembre 2024 presentano due diversi approcci alla Divinità.
Le letture si dividono in due blocchi:
- il primo descrive il rapporto con la divinità come concepito da Isaia e dal salmo, cioè dal popolo ebraico (Is 50,5-9 - sal 114);
- il secondo presenta il modo cristiano di rapportarsi con la divinità, e lo illustrano Giacomo e Marco (Giac 2,14-18 - Mc 8,27-35).
Il concetto di divinità, qualsiasi causa l’abbia originato, fu presente nell’umanità fin dalle origini dell’uomo. A volte confuso con il culto dei morti. Culto che però poneva un’ulteriore domanda, che fine fa chi muore?
Sul dopo-morte anche nel popolo Ebraico non esiste un pensiero chiaro, una singola e ipotetica visione sulla vita dopo. Le diverse correnti e scuole di pensiero all'interno dell'ebraismo hanno sviluppato interpretazioni e concezioni differenti, spesso influenzate dal contesto storico e culturale.
Ma poi il concetto di una vita futura si fece spazio. Non è possibile individuare un secolo preciso a partire dal quale questa credenza si sarebbe sviluppata, ma piuttosto che parlare di un inizio preciso, è più corretto parlare di un'evoluzione continua nel tempo delle concezioni ebraiche sulla vita dopo la morte.
Certo un importante sviluppo avvenne a partire dal periodo del Secondo Tempio, quando furono elaborate teorie più dettagliate sull'anima, sul giudizio divino e sulla vita nell'aldilà. Il periodo del Secondo Tempio, anche detto periodo intertestamentario, è stato un'epoca della storia di Israele iniziata nel 597 a.C. con l'esilio babilonese, e durata fino alla distruzione del Secondo Tempio da parte dei romani, nel 70 d.C.
Pertanto è normale che Isaia (morto nel 740 a.c.) o il salmo 114 (attribuito a Davide morto nel 970 a.c.) vedano in Dio quasi esclusivamente una protezione per vivere i loro giorni qui, sulla terra, in pace e serenità. Essi chiedono protezione per vivere qui.
Con Giacomo e Marco la prospettiva cambia. Si parla di futuro in maniera concreta e chiara basata sulla fede.
Inizia Giacomo che ci interpella su cosa comporta “credere” veramente. E ci dirà che se uno dice di aver fede ma la sua fede non lo coinvolge nella gestione della propria vita, cioè “se non seguono le opere, la fede in se stessa è morta.”
Inoltre Giacomo da chiarezza all’impreciso e fumoso futuro post-mortem che gli veniva dall’ebraismo. Il rapporto con Dio non è più una semplice protezione, non si obbedisce per essere aiutati nel vivere, ma lo sguardo si rivolge al dopo, a come meritare il “premio”. Il capovolgimento è evidente, non vivo bene qui perché lui interviene, ma vivrò bene dopo se farò “ora” come lui dice.
Sarà Marco a meglio guidarci. Marco infatti racconta che, mentre il gruppo camminava, Gesù aprì un argomento strano quasi fosse un normale “pour parler”, una domanda tanto per occupare il tempo, e in questo momento di apparente distensione pone la domanda fondamentale: voi chi dite che io sia?
L’unica risposta sensata arriva da Pietro ma subito dopo appare anche il retropensiero di Pietro. Noi stiamo con te perché sei grande, cioè cerca un suo vantaggio. E Gesù, che stupido non è, coglie la sfumatura e ne svela lo spirito demoniaco che vi si cela, fino a dare del Satana a Pietro.
Ma Gesù fa anche dell’altro, raduna tutti, popolo e gerarchia (folla e discepoli), e con autorità asserisce: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».
Insegna che Lui va seguito senza retropensieri, cioè senza pensieri nascosti e fini non dichiarati, accettando la propria croce, cioè la vita in cui ognuno è inserito, e giocandosela per arrivare a un’altra vita, li dove c’è la serena felicità e la pace. Perché credere è operare come Lui, è seguire Lui, è anelare al Paradiso.