Antropologia delle origini cristiane
Adriana Destro, Mauro Pesce
Edizioni Laterza, 1995
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Brano estratto dalla Prefazione al libro
Il redattore è un soggetto attivo che trasmette o traduce la propria cultura in un’epoca diversa da quella dei fatti che narra. È dunque la cultura del redattore che possiamo ricostruire nel Vangelo di Giovanni e non quella di Gesù che era vissuto più di mezzo secolo prima.
Ciò vale anche per le Lettere di Paolo.
- È vero che esse offrono, in presa diretta, la cultura di uno dei principali predicatori delle prime chiese perché sono un segmento della sua attività e non un resoconto di altri.
- Ed è vero che in questo caso autore del testo e agente culturale coincidono anche sul piano temporale.
- Tuttavia, le Lettere ci offrono la visione che Paolo aveva della vita religiosa delle chiese cui si rivolgeva, che erano comunità diversificate e spesso distanti fra loro migliaia di chilometri. Esse pertanto ci pongono a contatto in primo luogo con la lettura che l’autore, avvalendosi di tutti i propri schemi interpretativi e culturali, fa dei destinatari.
Non vogliamo sostenere che la ricostruzione della cultura di Gesù o delle comunità di cui parlano Paolo e gli Atti degli apostoli sia impossibile. Ma è un’operazione necessariamente successiva e comunque profondamente diversa dall’antropologia dei testi che qui proponiamo.
Di questa interpretazione antropologica degli scritti protocristiani il lettore troverà nel primo capitolo (cap.1) un tentativo di presentazione sintetica. Ci auguriamo che sia così più chiaro che la concentrazione sulla cultura del redattore non porta affatto a un ripiegamento sul solo testo isolato dal suo ambiente. Anzi —e in questo sta gran parte del risultato del nostro approccio -- è esattamente il contrario. Questo tipo di concentrazione sul testo permette infatti di evidenziare quanto siano profonde e ineliminabili le sue connessioni con l’ambiente culturale di cui fa parte e da cui è prodotto. Proprio per queste sue connessioni, il testo dà implicitamente conto della cultura del suo ambiente.
Il primissimo cristianesimo non consiste prevalentemente in dottrine e in concezioni astratte, bensì in esperienze in pratiche religiose che si manifestano in aggregazioni comunitarie che costituiscono assetti sociali originali. È perciò logico che il primo compito antropologico consista nello studio della forma sociale fondamentale attraverso la quale il cristianesimo si è diffuso, la ekklesîa, e del suo impatto con la società avvolgente e preesistente.
Parte prima: Chiesa vs «polis» e discepolato vs parentela
A questi problemi è dedicata la prima parte del libro.
Alla luce delle più classiche problematiche antropologiche (relative, ad esempio, alla liminalità e alla aggregazione) ci è sembrato che, nel progetto di Paolo, la ekklesìa dovesse essere una comunità nascente, non orientata in origine alla «riaggregazione nella società» (cap. 2). Ma l’impatto con tutto ciò che Paolo percepiva come «fuori» e la sua stessa tensione proselitistica ponevano in atto una serie di contraddizioni tra struttura e antistruttura che preludono —in modo non inatteso— all’integrazione.
I temi dell’integrazione (e qui il discorso antropologico farà necessariamente riferimento alla comunità e al suo rapporto con i differenti livelli del mondo cittadino) saranno infatti fondamentali negli Atti degli apostoli (cap. 3). La diversità di natura sociale delle chiese rispetto alle comunità ebraiche viene qui chiaramente sottolineata e il redattore è molto attento a mostrare la differenza del modo protocristiano di penetrare e integrarsi nella polis.
La configurazione sociale delle chiese che egli immagina è già mutata rispetto al progetto paolino di trent'anni prima. Le comunità sono presentate in una situazione di forte espansione e percorse da ricorrenti conflitti con la società in cui nascono. E proprio l’accento su questi conflitti mostra come le chiese cercassero di contemperare la loro integrazione con la necessità di distruggere quegli elementi fondamentali della cultura religiosa della polis che consideravano inconciliabili con la nuova visione.
Il Vangelo di Giovanni, scritto non molto dopo gli Atti, ci mette a contatto con una situazione e una prospettiva abbastanza diverse (cap. 4). Esso si situa in un periodo in cui la grande esperienza di innovazione culturale della predicazione itinerante volge ormai al tramonto e in cui il confronto con le radici della società è più diretto. Qui, la riscrittura dell’itineranza palestinese di Gesù conserva delle spie sintomatiche della sedentarizzazione delle chiese.
Sul piano del significato antropologico a noi è sembrato importante rilevare, per esempio, come il quarto Vangelo abbia una visione molto più penetrante e positiva della ineliminabile e onnipresente funzione della parentela nel movimento di Gesù di quanto non risulti dagli altri Vangeli canonici.
Parte seconda: «Performances» e sistemi di classificazione
A differenza di un’esegesi troppo concentrata sulle idee teologiche, spesso addirittura deformate alla luce del dibattito delle chiese successive, l'antropologia non può trascurare l’esperienza religiosa concreta, naturalmente quella restituita dai testi.
La seconda parte del libro è perciò dedicata a individuare alcune delle performances religiose della prima chiesa, e cioè quelle azioni pubbliche formalizzate che ne caratterizzano l’identità e i processi di sviluppo. Fra le varie forme di performances abbiamo scelto gli esorcismi e alcuni riti molto singolari.
Lo studio degli esorcismi negli Atti degli apostoli (cap. 5) ci mostra come il redattore concepisse un preciso tipo di concorrenza tra i gruppi religiosi interni alle città, ma ci consente anche di mettere a fuoco la dialettica tra ciò che è comune alle differenti concezioni e pratiche culturali e ciò che è specifico di un movimento che si concretizza o si va trasformando in un gruppo minoritario o in una sub-cultura.
Da questo punto di vista, la struttura culturale più adatta a trasmettere l’originalità e i caratteri di una esperienza religiosa è forse il rito, in quanto strumento di connessione col divino. La narrazione del Vangelo di Giovanni si rivela continuamente percorsa da descrizioni ed echi di momenti rituali. Un’attenzione non esclusivamente letteraria permette di ricostruirli e consente anche di comprendere il racconto come storia di fondazione (articolata proprio attraverso vari riti) di un gruppo religioso minoritario (cap. 6).
Nella trattazione delle pratiche e dei riti che trapelano dalla narrazione siamo sempre stati attenti alle categorie classificatorie dei redattori. L'obiettivo è una lettura la più attenta possibile agli impliciti culturali dei testi e al modo in cui i primi autori cristiani elaborano categorie peculiari, proprio nel contesto culturale in cui vivevano. Abbiamo perciò studiato anche una parte dei sistemi di classificazione culturale di Paolo (cap. 7). Egli era attento e sensibile a quelle che oggi chiamiamo differenze culturali tra formazioni religiose. Aveva anche esplicitamente teorizzato la necessità che alcune delle differenze fondamentali tra gruppi culturali dovessero essere considerate irrilevanti all’interno della nuova fede. Accanto a ciò, permane però in lui, almeno per alcuni aspetti, la convinzione della superiorità ebraica.
L'antropologia delle origini cristiane è uno degli esiti dell’applicazione alle società antiche dell’antropologia culturale.