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16 giugno 2013 7 16 /06 /giugno /2013 16:28

Not in my hate (commento pubblicato il 11 giugno 2013 da Luca Soffri)

 

Ieri (10 giugno 2013) alla Camera dei Deputati c'è stato un incontro sui temi dello “hate speech”(odio) su internet.

 

Ha ricevuto lodi e critiche.

 

Io tendo a vedere i bicchieri mezzi pieni e lo giudico una cosa benintenzionata e che ha per la prima volta provato a coinvolgere, nei luoghi dove si fanno le leggi e si prendono le decisioni, un po’ di persone che su internet e i suoi meccanismi hanno competenze un po’ più longeve ed estese.

 

Parlare con gli esperti, è una cosa che la politica fa su molti temi, delegando giustamente alle competenze maggiori le analisi, mentre su internet ognuno pensa di essere esperto e di avere capito tutto.

 

Poi c’erano troppi temi, troppi interventi, obiettivi confusi: ma quello è il mezzo vuoto, a cui aggiungerei anche gli eccessi demolitori pregiudiziali di alcuni.

 

La necessità di dialogo e comprensione che superi la tradizionale macchiettizzazione reciproca incentivata dai media – smanettoni per il liberi-tutti contro imbavagliatori e censori – è secondo me uno dei temi più importanti, e appunto penso che un passetto avanti si sia fatto: malgrado alcuni giudizi suggeriscano il radicamento di questo desiderio di macchiettizzare e sentirsi i-buoni-contro-i-cattivi.

 


L’altro tema su cui era importante essere chiari ieri, è quello della radice della violenza e dell’odio di cui si parla: che non è internet, ma è la società in generale e le persone nei loro comportamenti.

 

Come scrivono gli autori di  Viral Hate, libro sul tema appena uscito, quello fuori da internet è «un mondo dove gli standard tradizionali di onestà, tolleranza e civiltà si stanno rapidamente deteriorando»

Spesso – come in molti casi di bullismi tra i giovani – internet è rivelatrice di violenze che già esistevano taciute, non generatrice.

E le violenze che “amplifica” e moltiplica sono figlie di comportamenti, inclinazioni e modelli che discendono da persone e responsabilità, non nascono lì. Lo ha detto molto bene Rodotà, dedicando tutta la seconda parte del proprio intervento a questo. Mia sintesi: “il problema non è internet, siamo noi”.

Con che faccia vanno a protestare contro le tempeste di insulti e aggressività online coloro che seminano vento ogni giorno – quando non direttamente tempeste – sui giornali, in tv, in politica?

 

Mi sono permesso ieri, rispettosamente, di ricordare che nel luogo dove ci trovavamo sono state elette persone e ultimamente addirittura partiti che del “linguaggio d’odio” sono non solo soventi interpreti, ma che addirittura ne hanno fatto parte fondamentale del proprio messaggio e della propria campagna elettorale.

 

Non vedo convegni o seminari su questo, in giro: e lo capisco, porsi il problema della violenza e dell’odio che dilagano ovunque e di cui siamo tutti responsabili ammazzerebbe qualunque buona volontà, immaginare di poterlo controllare nello spazio di internet è meno frustrante, così come pensare di relegare la questione alle scuole. La repressione è stata sempre una strada più facile dell’educazione, soprattutto di quella degli adulti.

Mi sarebbe piaciuto poter sentire qualcuno dei molti deputati presenti intervenire e difendere questi linguaggi e queste violenze, indiscutibili: non l’hanno fatto, ho immaginato non ce ne fossero, in quell’Aula del Mappamondo.

 

Ho scoperto invece oggi che per esempio c’erano alcuni deputati del M5S, e che con alcuni di loro ha parlato Pietro Salvatori. La disarmante contraddittorietà delle cose che dicono, e la vile sottrazione alla responsabilità, sono palesi.

Mi limito a riprendere una risposta, una sintesi definitiva della confusione tra ciò che è legale e ciò che è responsabile, nel momento in cui si parlava delle conseguenze che può avere la violenza verbale, anche quando si tratta “solo di parole”: «Credo che finché non si commette alcun reato si è liberi di dire quel che si vuole e di leggere ciò che si ritiene più opportuno»

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