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27 giugno 2020 6 27 /06 /giugno /2020 04:19

 

Una parola chiara sul pensiero di Emmanuel Levinas

 

 Breve estratto dall’intervista di Bachisio Meloni alla Prof. Irene Kajon (Ordinario di antropologia filosofica all’università di Roma1), in margine al Convegno internazionale di studi dedicato a ““Visage et Infini. Analisi fenomenologiche e fonti ebraiche in Emmanuel Levinas”, Roma Maggio 2006, per il centenario della nascita del filosofo.  

 

[…]

Jacques Derrida nel suo intervento commemorativo e celebrativo di Adieu à Emmanuel Lévinas dichiara che “il risuonare di questo pensiero ha cambiato il corso della riflessione filosofica del nostro tempo, e della riflessione sulla filosofia”.

Le chiedo pertanto: dove risiedono, secondo Lei, le ragioni più profonde della grandezza di questo pensiero, e in che cosa consiste il carattere straordinario dell’opera levinasiana?

 

Sono assolutamente d’accordo con il giudizio che Derrida esprime sul pensiero di Levinas. È vero che questo pensiero, seguito dal suo risuonare in varie lingue (in inglese, tedesco, italiano, spagnolo, ebraico, oltre che in francese) e in vari ambienti intellettuali, ha cambiato il corso della riflessione filosofica contemporanea e ha influito sulla riflessione intorno al concetto stesso della filosofia.

 

Mi sembra che la novità del pensiero levinasiano consista nella radicalità con la quale esso pone il tema di un “altrimenti” rispetto all’“essere” come la dimensione nella quale soltanto l’uomo diventa veramente uomo, acquista la sua umanità.

 

Essere” per Levinas è

  • non soltanto il regno dei fenomeni, siano essi fatti della natura o eventi storici, i quali si manifestano ai sensi e vengono conosciuti dalla ragione rivolta alla determinazione di oggetti, o di contenuti,
  • ma anche la sfera del sovrasensibile, quando questo assume l’aspetto di Dio come Ente sommo o di un al di là delle anime contrapposto al tempo.

 

Levinas è un critico

  • tanto dell’empirismo o materialismo filosofico, poiché esso rende l’uomo dipendente dalle cose, dalla storia, dalla natura,
  • quanto della teologia naturale, poiché essa richiede che l’uomo, comprendendo o intuendo l’Assoluto o l’Incondizionato, si subordini poi a questo.

 

Filosofie dell’“essere” sono per lui

  • sia le filosofie che inchiodano l’uomo alla nascita, al destino, alle inclinazioni naturali, alla situazione storica o esistenziale – da Epicuro a Hume a Sartre –
  • sia le filosofie che lo pongono al servizio di un Dio ben definito o evocato nella mistica o nella poesia – da Tommaso d’Aquino a Heidegger.

 

Per Levinas tutte le filosofie dell’“essere” sono filosofie dell’“identità”: al fondo del soggetto che si radica nella natura o nella storia o che trova la sua quiete in un Dio concepito come fondamento assoluto o avvertito nel sentimento come sacro, vi è a ben vedere il terrore del rischio, dell’avventura, del nomadismo, di tutto ciò che sconvolge il consueto e rassicurante.

 

Quella di Levinas è una filosofia della libertà: ma libertà è per lui

  • non innanzi tutto la capacità di autodeterminarsi, di scegliere, la spontaneità nell’agire,
  • ma la responsabilità che ciascun “io” ha nei confronti dell’“altro uomo”, l’altro uomo che è di fronte a lui, che gli appare, e che tuttavia non è rinchiuso nel mondo fenomenico.

 

L’“altrimenti che essere” è l’etica: qui l’“io”

  • qui l’“io” non è il soggetto soddisfatto, dotato di buona coscienza, che rivendica i suoi meriti, o che approfitta degli eventi per affermare ogni volta se stesso, oppure che trova dentro di sé il divino, caro alla tradizione filosofica e teologica,
  • ma il soggetto che ha doveri, prima che diritti, consapevole delle sue colpe, abitato in certo modo dall’“altro”, intimamente animato, non stabile, mai privo di rimorsi.

 

La religione per Levinas si identifica con l’etica: Dio si delinea nell’incontro con l’“altro uomo” come lontana e mai afferrabile origine di comandamenti incondizionati – dal non esercitare violenza al soccorso nel nutrire, ospitare o curare.

 

La sfera dell’“essere” – la quale implica il confronto mediante la ragione, dunque la giustizia, lo Stato, le nazioni, i rapporti tra le nazioni e tra gli Stati, la politica come campo delle mediazioni – si apre solo a partire da quella dell’“altro” da “essere”, la quale riguarda la dimensione “io”-“altro”.

 

La filosofia levinasiana radicalizza l’idea della ragione pratica e il primato della ragione pratica affermati dalla filosofia kantiana:

Levinas esprime in modo più evidente di Kant, il quale specie nella Critica del Giudizio rimane legato alla tradizione metafisica,

  • l’anteriorità dell’etica rispetto alla conoscenza,
  • il “tu devi” come unico modo che l’uomo ha di entrare in contatto con la sfera dell’eterno o intelligibile (il noumenico),
  • la critica del naturalismo e sentimentalismo nella vita morale.

 

Come Kant, Levinas è rigoroso e in modo sobrio – contro ogni romanticismo – si appella alla ragione in etica. La ragione pratica, affermata da Kant, coincide con quella capacità dell’uomo di formare il suo “io” soltanto a contatto con l’“altro uomo” che Levinas accentua, facendo uso di iperboli.

 

Ma egli si richiama, oltre che a Kant, anche ad altri pensatori, in particolare il Platone del bene “al di là dell’essenza” e il Descartes che scopre in Dio ciò che è oltre l’“ego cogito”. Tuttavia, Levinas vede la storia della filosofia – da Parmenide a Hegel alla crisi dello hegelismo, dai primordi in Grecia fino al Novecento – segnata dalla ricerca rivolta all’“essere” più che all’“altrimenti che essere”. Perciò egli indica anche alla filosofia la necessità di pensare di nuovo se stessa, come Derrida dice nella sua commemorazione.

 

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17 marzo 2020 2 17 /03 /marzo /2020 18:17

 

Pensieri nel silenzio che ci regalo il Covid-19

Pensiero suggerito da E. WIlson nel primo capitolo del suo libro "il significato dell'esistenza mana” ( codice ed. 2014).


Credo sia giunto il momento di avanzare una proposta sulla possibilità di unificazione dei due grandi campi del sapere.

 

La cultura umanistica è interessata a infiltrarsi nelle scienze? […]

 

Che ne direste di sostituire la fantascienza - immagini scaturite dalla fantasia di una mente sola - con nuovi mondi, di una ben più vasta diversità fondati sulla scienza reale prodotta da molte menti?

Poeti artisti non potrebbero forse pensare di andare alla ricerca di dimensioni, profondità e significato inesplorati, e di cercarli nel mondo reale, ossia in un campo che è fuori dalla portata dei sogni comuni?

 

Non sarebbero interessati a scoprire la verità su ciò che Nietzsche chiamò «i colori dell'arcobaleno», cioè i confini ultimi del conoscere e del fantasticare?

 

[…] una visione del mondo molto diversa, e cioè che la fonte del significato sia da ricercare negli accidenti della storia e non nelle intenzioni di un architetto: nessun disegno tracciato in anticipo, bensì reti sovrapposte di cause ed effetti fisici.

 

[…] Per spiegare la condizione umana, e per dare un significato all'esistenza umana, occorrono entrambi i livelli di spiegazione

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20 dicembre 2019 5 20 /12 /dicembre /2019 11:19

Edgard Morin nel suo libro "L'uomo e la morte" riporta un aforisma di La Rochefoucauld (1613-1680): non si può guardare in faccia né il sole né la morte.

 

E il Morin così commenta:

In seguito, gli astronomi, armati delle astuzie infinite della loro scienza hanno pesato il sole, misurato la sua età, annunciato la sua fine. Ma la scienza è restata intimidita e tremante al cospetto dell’altro sole, la morte."

 

Trovo che sia una rispettabile opinione laica sulla morte. Ma la Chiesa che dice? Dice che è Natale, e con quella vita che apparve allora nella Terra la morte è diventata una porta, la porta per il vero “Sole”.

 

Auguri. Vi auguro di riuscire a crederci.

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1 dicembre 2019 7 01 /12 /dicembre /2019 07:40

Gnoseologia

La prima pagina della Filosofia, la più affascinante

Libera rielaborazione dell’articolo di Wikipedia sulla Gnoseologia).

 

La gnoseologia (dal greco gnòsis, «conoscenza», + lògos, «discorso»), chiamata anche teoria della conoscenza, è quella branca della filosofia che studia la natura della conoscenza.

 

In particolare, così come si è consolidata nell'età moderna ad opera della speculazione filosofica di Kant, la gnoseologia si occupa dell'analisi dei fondamenti, dei limiti e della validità della conoscenza umana, intesa essenzialmente come relazione tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto.

 

[Nell'ambito della cultura anglosassone la teoria della conoscenza è chiamata anche e soprattutto epistemology, laddove in Italia con il termine epistemologia si designa essenzialmente quella branca della gnoseologia che si occupa della conoscenza scientifica o, in un senso ancora più specifico, la filosofia della scienza].

 

Principali branche della gnoseologia

Alla luce dei diversi approcci che storicamente hanno affrontato il problema della conoscenza, la gnoseologia è suddivisibile principalmente nelle seguenti branche, spesso reciprocamente incompatibili tra di loro:

  • Realismo, per il quale la realtà esiste indipendentemente dal soggetto conoscente: nella disputa sugli universali, ad esso veniva ricondotta la dottrina di Aristotele, ma sotto certi aspetti anche la teoria platonica delle idee;[23]
  • Nominalismo, che nega consistenza ontologica ai principi conoscitivi dell'intelletto;
  • Empirismo, secondo cui la conoscenza deriva esclusivamente dai sensi o dall'esperienza;[24]
  • Razionalismo, per il quale viceversa la ragione è la fonte di ogni nostra conoscenza sul mondo;
  • Criticismo, a metà tra i due indirizzi precedenti, per cui la ragione svolge un ruolo fortemente attivo nel processo di conoscenza, ma non può prescindere dall'esperienza sensibile;[25]
  • Idealismo, solitamente contrapposto al realismo, che nega autonomia ontologica alla realtà fenomenica, ritenendola il riflesso di un'attività interna al soggetto;
  • Scetticismo, per il quale è impossibile raggiungere una qualsivoglia verità;
  • Dogmatismo, contrapposto allo scetticismo, convinto che esista una corrispondenza tra le strutture intellettive del soggetto e quelle metafisiche della realtà;[26]
  • Fenomenologia, che pone l'accento sulle modalità con cui il soggetto si rapporta intenzionalmente ad un oggetto, indipendentemente dall'esistenza reale di quest'ultimo;[27]
  • Costruttivismo, che considera il mondo come il risultato dell'attività costruttrice delle nostre strutture conoscitive;
  • Psicologismo, per il quale non solo ogni forma di conoscenza, ma anche le leggi logiche e matematiche sarebbero riconducibili ad istanze soggettive di natura esclusivamente psicologica.

 

Personalmente e convintamente aggiungerei, due nuove branche, che confermano le intuizioni teoriche di Kant e danno possibilità di confronto, e quindi concretezza, a tanto dire in due millenni e mezzo di civiltà filosofica:

  • Neuroscienze, che analizzano il cervello umano per capirne le funzioni e la formazione
  • L’intelligenza artificiale, come parametro di confronto molto simile al nostro cervello.

 

Attuale posizione della Filosofia contemporanea sul tema gnoseologico.

Dopo Kant, con la nascita dell'idealismo tedesco la gnoseologia sembrò prendere il sopravvento sull'ontologia, anche se in Fichte e Schelling queste due discipline si mantengono pur sempre su un livello paritario, poiché l'Idea da cui essi fanno scaturire il reale è coglibile ancora soltanto con un atto intuitivo (assimilabile all'Uno neoplatonico).

 

Sarà con Hegel che l'ontologia risulterà definitivamente assorbita dalla Gnoseologia. Hegel infatti costruì un sistema Logico che aveva la pretesa di essere anche ontologico. Le categorie conoscitive, che in Kant erano puramente "formali", diventano insieme "forma e contenuto": sono cioè categorie logiche-ontologiche. Hegel si trova quindi agli antipodi di Parmenide e Plotino: la conoscenza per lui non avviene a livello immediato e intuitivo, ma è il frutto di una mediazione razionale, è il risultato cioè di un processo con cui la ragione arriva a dedurre da sé tutta la realtà. Fu l'apoteosi della gnoseologia.

 

Solo nel Novecento Heidegger cercò di ridare la supremazia all'ontologia, affermando che l'Essere non può mai essere ridotto ad oggetto, perché esso sempre ci trascende. Presumere di poterlo dedurre razionalmente, dandogli un predicato, è stato l'errore fondamentale della metafisica occidentale.

 

Ma la gnoseologia era giunta ormai ad un punto di svolta, presumendo finalmente di trovare nel sapere scientifico quella garanzia di certezza e oggettività che era stata a lungo inseguita dalla filosofia; e d'altro lato separava nettamente questo sapere dai contenuti della metafisica, a cui Kant per primo aveva negato quelle caratteristiche che ai suoi occhi apparivano come la chiave di successo della fisica e della scienza moderne. Per un verso il dibattito si è trasferito così in ambito strettamente epistemologico, dando luogo al positivismo ottocentesco e quindi ai vari indirizzi della filosofia analitica, sostanzialmente eredi della tradizione empirista anglosassone; per altro verso permane l'ambito della cultura umanistica, artistica e letteraria, separato da quello scientifico da una profonda linea di demarcazione, radicato nell'Europa continentale, portatore delle istanze idealistiche, romantiche, e infine esistenzialiste.

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17 settembre 2019 2 17 /09 /settembre /2019 09:34

 

L'universalità non sta nelle cose ma nei filtri con cui l’uomo la recepisce (…così mi pare insegni Kant), cioè avendo una identica metodologia e identici filtri reputiamo universali i nostri risultati conoscitivi.

 

Il problema gnoseologico quindi si sposta sui filtri che adottiamo in quanto uomini. E sono proprio questi filtri conoscitivi che grazie alle scienze son diventati più "acuti". Quello che ci circonda non è cambiato, ma sul nostro naso sono poggiati occhiali che ci mostrano qualcosa che non vedevamo.

 

Non intendo entrare nel merito delle altre importanti dottrine in mutazione, cioè

  • degli studi di fisica quantistica che mettono in crisi la nostra conoscenza della meccanica e persino i nostri concetti sul tempo;
  • dei voli nello spazio con qualche visitina alla desertica luna o approdi su orridi asteroidi che ci fanno ripensare ai religiosi concetti di cielo;
  • dell’elettronica/informatica che stanno azzerando lo spazio, rendendo reale l’invisibile e imitabile l’intelligenza dell’uomo.

 

Ecco un’altra scoperta che sradica molte filosofie e riordina tante biblioteche di antropologia. Riporto e propongo alla vostra riflessione la sintesi con cui si apre il libro di Guido Barbujani, Sillabario di genetica per principianti (Bompiani, 2019):

 

Il DNA delle nostre cellule, il genoma, è un messaggio dal passato. I mittenti sono milioni di nostri antenati, e il contenuto sono le istruzioni che permettono alla cellula uovo fecondata di moltiplicarsi fino a formare l’organismo complesso che siamo noi, e di farlo funzionare.

 

Da qualche anno leggere cosa c’è scritto nel genoma è tecnicamente possibile, con poca spesa e su larga scala.

 

Di questo testo immenso, lungo quanto seimila volumi dei Promessi sposi,

  • conosciamo l’alfabeto, cioè le quattro basi che, in lunghe file, formano i cromosomi;
  • ne comprendiamo il lessico, cioè cosa significano le singole parole che lo compongono, i geni;
  • siamo invece lontani dal capirne la sintassi, cioè il modo in cui ogni gene risponde al funzionamento degli altri geni e ai messaggi provenienti dall’ambiente.

 

Quindi oggi leggendo il DNA riusciamo a prevedere le malattie più semplici, quelle che dipendono da un solo gene, mentre non ne sappiamo ancora abbastanza per sapere se ci verrà il diabete, il cancro, la pressione alta o il Parkinson, o anche solo quale sarà il nostro girovita.

 

Però abbiamo imparato tante cose che a lungo ci sono sfuggite; la sfida è orientarsi in questa formidabile complessità, e non solo per chi fa ricerca biomedica o studia l’evoluzione:

  • il DNA è entrato dappertutto, nelle aule dei tribunali come nei siti web che ci offrono a pagamento rivelazioni sulla nostra identità;
  • i giornali annunciano di continuo la scoperta di geni che ci renderebbero intelligenti, o timidi, o sexy, o propensi alla delinquenza;
  • e siamo chiamati, come cittadini, a prendere decisioni su quali dati genetici personali sia lecito o utile rendere pubblici, o su quanto e come sia legittimo modificare il DNA degli organismi, compreso il nostro.
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14 settembre 2019 6 14 /09 /settembre /2019 05:39

L’uomo dotato di ragione ha diritto di sapere 

  • se le sue preghiere e i suoi riti stabiliscono o no un rapporto con una realtà da lui distinta; 
  • se le idee religiose tradizionali di creazione e compimento non sono un’invenzione dell’uomo;
  • se il concetto di Dio non è soltanto una pura proiezione; 
  • se la religione in generale non è, come pensa Freud, soltanto la più forte di tutte le illusioni.

(Hans Kung in "Dio esiste")

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6 settembre 2019 5 06 /09 /settembre /2019 06:31

Con l'avanzare dell'età ci sono domande che diventano sempre più impellenti:

.
•    La religione ha ancora un avvenire? 
•    La morale non è possibile anche senza la religione? 
•    Non basta la scienza? 
•    La religione non si è sviluppata dalla magia? 
•    Non è forse destinata a scomparire nel corso dell’evoluzione? 
•    Dio non è essenzialmente proiezione dell’uomo (Feuerbach), oppio del popolo (Marx), risentimento dei vinti (Nietzsche), illusione di gente rimasta allo stadio infantile (Freud)?
•    L’ateismo non è dimostrato e il nichilismo non è inconfutabile? 
•    Non hanno forse finito anche i teologi per abbandonare le prove dell’esistenza di Dio?
•    Oppure si deve credere senza ragioni? Semplicemente credere? 
•    Non si può dubitare di tutto, eccetto forse della matematica e di ciò che si può osservare, pesare e misurare? 
•    Non potrebbe essere la certezza matematica l’ideale – oppure non c’è nessuna base su cui fondare la certezza?

.

E se anche Dio esistesse: 
•    sarebbe personale o impersonale? 
•    La prima alternativa non sarebbe ingenua e la seconda astratta? 
•    O si dovrebbe forse preferire la sapienza dell’Oriente, il silenzio del buddhismo al cospetto dell’Assoluto senza nome? 
•    Le religioni non sono, in fondo, tutte uguali? 
•    Il Dio dei filosofi non sarebbe intellettualmente più onesto?
•    Perché infatti dovrebbe essere migliore il Dio della Bibbia? D
•    io come colui che crea e porta a compimento l’universo? 
•    Che cosa sappiamo delle origini e della fine? 
•    E magari del Dio cristiano: Padre, Figlio e Spirito Santo – Trinità? 

.

Che cosa pensare di tutto ciò?
•    Anzi, perché credere in Dio? 
•    Perché non accontentarsi di credere nell’uomo, nella società, nel mondo? 
•    Perché credere in Dio, e non semplicemente nei valori umani di libertà, fraternità, amore?
•    Perché, oltre alla fiducia in se stessi, anche la fiducia in Dio, perché oltre al lavoro anche la preghiera, oltre alla politica anche la religione, oltre alla ragione anche la Bibbia, oltre all’al di qua anche l’al di là? 

.

Che cosa significa in generale la fede in Dio?

Che cosa vuol dire credere in Dio, oggi?
(da "Dio esiste?" di Hans Küng)

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31 luglio 2019 3 31 /07 /luglio /2019 07:33

"Riforma del pensiero" e "politica della civiltà"

Edgar Morin ha dedicato gran parte della sua opera ai problemi di una "riforma del pensiero", affrontando le questioni alla base delle sue riflessioni sull'umanità e sul mondo: la necessità di una nuova conoscenza che superi la separazione dei saperi presente nella nostra epoca e che sia capace di educare gli educatori a un pensiero della complessità.

In Morin è anzitutto fondamentale la distinzione tra civiltà e cultura. 
•    La cultura è l'insieme delle credenze e dei valori caratteristici di una determinata comunità.
•    La civiltà è invece il processo attraverso il quale si trasmettono da una comunità all'altra: le tecniche, i saperi, le scienze.

Morin sostiene che "la cultura, ormai, non solo è frammentata in parti staccate, ma anche spezzata in due blocchi": 
•    da una parte la cultura umanistica "che affronta la riflessione sui fondamentali problemi umani, stimola la riflessione sul sapere e favorisce l'integrazione personale delle conoscenze", 
•    dall'altra, la cultura scientifica che "separa i campi della conoscenza, suscita straordinarie scoperte, geniali teorie, ma non una riflessione sul destino umano e sul divenire della scienza stessa". 
•    A ciò va aggiunta la sfida sociologica: "l'informazione è una materia prima che la conoscenza deve padroneggiare e integrare", una conoscenza "costantemente rivisitata e riveduta dal pensiero", il quale a sua volta "è oggi più che mai il capitale più prezioso per l'individuo e la società". 

L'indebolimento di una percezione globale conduce all'indebolimento del senso della responsabilità, poiché ciascuno tende a essere responsabile solo del proprio compito specializzato, così come all'indebolimento della solidarietà, poiché ciascuno percepisce solo il legame con la propria città: "la conoscenza tecnica è riservata agli esperti" e "mentre l'esperto perde la capacità di concepire il globale e il fondamentale, il cittadino perde il diritto alla conoscenza".

Secondo Morin è necessario raccogliere queste sfide attraverso la riforma dell'insegnamento e la riforma del pensiero: "è la riforma di pensiero che consentirebbe il pieno impiego dell'intelligenza per rispondere a queste sfide e che permetterebbe il legame delle due culture disgiunte. 

Si tratta di una riforma non programmatica ma paradigmatica, poiché concerne la nostra attitudine a organizzare la conoscenza". Per spiegare questo concetto Morin richiama una frase di Michel de Montaigne: "È meglio una testa ben fatta che una testa ben piena". 

Egli perciò distingue tra "una testa nel quale il sapere è accumulato e non dispone di un principio di selezione e di organizzazione che gli dia senso" e una "testa ben fatta", che comporta "un'attitudine generale a porre e a trattare i problemi; principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e di dare loro senso".
Secondo Morin, una "testa ben fatta", mettendo fine alla separazione tra le due culture, consentirebbe di rispondere alle formidabili sfide della globalità e della complessità nella vita quotidiana, sociale, politica, nazionale e mondiale.
Riguardo alla civiltà occidentale, che è oramai globalizzata, essa ha ormai più effetti negativi che positivi, ed è anch'essa dunque bisognosa di una riforma, e dunque di una politica della civiltà. Gli assi portanti di una tale politica dovrebbero essere l'umanizzazione delle città e la lotta alla desertificazione delle campagne. Una politica della civiltà deve ristabilire solidarietà e responsabilità, e mirare a una simbiosi tra le diverse civiltà planetarie, raccogliendo il meglio di ciò che ciascuna ha da offrire. Deve infine abbandonare il perseguimento del "di più" a favore del "meglio", abbandonare l'idea quantitativa di crescita generalizzata, per adottarne una qualitativa: la politica della civiltà deve stabilire dove deve esservi crescita, e dove decrescita


Brano prelevato da Wikipedia su Edgar Morin, pseudonimo di Edgar Nahoum, nato a Parigi, 8 luglio 1921, filosofo e sociologo francese.
 

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20 febbraio 2019 3 20 /02 /febbraio /2019 16:36

Le acque di oggi dove viaggia chi crede

 

Ci sono libri che ti segnano più di altri. Uno di questi è stato per me il libro di Carlo Rovelli il cui titolo è già un programma: “La realtà non è come appare” (cortina editore, 2014).

In questo libro Rovelli racconta l’avventura della scienza da Galileo ai nostri giorni. Racconta il continuo susseguirsi di soluzione a problemi ereditati e dei problemi in lascito a chi seguiva.  Il tutto prendeva il via da una tecnica nuova, il cannocchiale. L’umanità aveva percepito che per capire il mondo non bastava pensare dedurre, occorreva aiutarsi con strumenti. Fu un matrimonio, scienza e tecnica s’erano incontrate e sposate e filiavano. La tecnica andava così a sostituirsi al pensiero senza confronto, era nato il pensiero scientifico che pretendeva dalle sue asserzioni la ripetitività. Era la tecnica che inveritava la parola.

 

Mentre nel Medioevo ciò che noi chiamiamo ora il significato simbolico di una cosa costituiva in qualche modo la sua realtà primaria, l’aspetto della realtà si modificò nella direzione di ciò che possiamo percepire con i nostri sensi. Reale soprattutto divenne ciò che possiamo vedere e toccare. E questo nuovo concetto di realtà potrebbe venire connesso a un nuovo tipo di attività: noi possiamo fare degli esperimenti e vedere come le cose stanno realmente.

[...] In questa controversia i rappresentanti della scienza naturale potevano mettere in rilievo che l’esperienza presenta una verità indiscutibile, che non può essere rimesso ad alcuna autorità umana il decidere su quanto accade realmente in natura, e che una decisione del genere è presa dalla natura e, in questo senso, da Dio. I rappresentanti della religione tradizionale, d’altra parte, potevano controbattere che con il prestare attenzione al mondo materiale, a ciò che percepiamo con i nostri sensi, perdiamo il contatto con i valori essenziali della vita umana, cioè proprio con quella parte della realtà che è al di là del mondo materiale. Sono due argomenti che non s’incontrano e perciò il problema non poteva venire risolto con alcun genere di accordo o di decisione.

[...] Nello stesso tempo l’atteggiamento umano verso la natura si mutò da contemplativo in pragmatico. Non tanto ci si interessava alla natura come essa è, quanto ci si chiedeva piuttosto che cosa se ne potesse fare. Per questo la scienza naturale si trasformò in scienza tecnica; ogni progresso conoscitivo veniva legato al problema circa l’uso pratico che se ne poteva fare.

(Werner Heisenberg, Fisica e filosofia, Saggiatore, 2018)

 

Guarda una fotografia satellitare della Terra di notte per dare un’occhiata a questo organismo molto grande.
I brillanti grappoli di luci palpitanti delle città tracciano schemi organici sul terreno scuro. I contorni dei centri urbani sfumano gradualmente a formare autostrade lunghe, sottili e illuminate che collegano altri grappoli di città lontane. I percorsi delle luci verso l’esterno sono dendritici, simili ad alberi.
L’immagine è profondamente familiare. Le città sono i gangli delle cellule nervose. Le autostrade illuminate sono gli assoni dei nervi che raggiungono una connessione sinaptica. Le città sono i neuroni dell’Holos. Viviamo dentro questa cosa.

(dal libro di K.Kelly, l’inevitabile)

 

[…] Mentre tradizionalmente il grandioso piano cosmico dava un senso alla vita degli umani, l’umanesimo capovolge i ruoli e prevede che le esperienze degli umani diano un senso al cosmo. Secondo questo sistema di valori, gli uomini devono ricavare dalle loro esperienze interiori il significato non solo delle loro vite, ma anche dell’intero universo.

Questo è il principale comandamento che l’umanesimo ci ha lasciato: dare un senso a un mondo che un senso non ha. Di conseguenza la rivoluzione religiosa fondamentale della modernità non è stata smarrire la fede in Dio, bensì accrescere la fede nell’umanità.

[…] La religione umanista adora l’umanità e prevede che essa ricopra il ruolo che Dio interpretava nel cristianesimo e nell’islam, e che le leggi di natura hanno interpretato nel buddhismo e nel taoismo.

[…] Mentre tradizionalmente il grandioso piano cosmico dava un senso alla vita degli umani, l’umanesimo capovolge i ruoli e prevede che le esperienze degli umani diano un senso al cosmo. Secondo questo sistema di valori, gli uomini devono ricavare dalle loro esperienze interiori il significato non solo delle loro vite, ma anche dell’intero universo.

Questo è il principale comandamento che l’umanesimo ci ha lasciato: dare un senso a un mondo che un senso non ha. Di conseguenza la rivoluzione religiosa fondamentale della modernità non è stata smarrire la fede in Dio, bensì accrescere la fede nell’umanità
.

(da "homo deus" di Y.N.Harari)

 

Non possiamo guardare le stelle come una volta, perché sappiamo che sono sassi invivibili, non c’è un sopra e un sotto, non esiste un tempo uguale per tutti, non esiste il pieno e il vuoto, non c’è solo il percepibile ma anche gli algoritmi e i cellulari e le posizioni sulle mappe, molta salute sta nella chimica e negli ospedali, esiste l’enormemente grande ma anche l’enormemente piccolo. Tutto è diverso da come sembrava e sembra. Questo è il cambiamento L’uomo moderna è questo. È qui che vivo.

Ma la religione e il suo Dio? Cosa significa credere? Credo che alla fede resti un solo testimone: la morte. La morte è l’unica realtà certa e che rende impotente il potente. 
 
Pertanto sto rivisitando e cercando tra le "rivelazioni", quelle del primo secolo (i testi sacri) e quelle rielaborate dai Padri (la tradizione). E poiché Dio non ha scritto niente, ma si è limitato a servirsi della penna e cervello di scuole di pensiero del periodo, sono ripartito da Cullmann per gli influssi ellenici e da Adriana Destro e Mauro Pesce per l'analisi della formazione dei testi sacri (gli influssi ebraici). 
 
Questo lo faccio solo perché convinto che meriti il mio tempo e la mia attenzione. Non penso ci sia niente di più importante.

 

 

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10 agosto 2018 5 10 /08 /agosto /2018 16:20

 

Wittgenstein e la meraviglia,

 di G. Locatelli

 
Mi è capitato spesso di riflettere sulla differenza che Wittgenstein traccia a riguardo della meraviglia logica e della meraviglia metafisica (in A Lecture on Ethics, 1929, ora compreso in "Lezioni e conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la credenza religiosa").

 

Il caso della meraviglia logica è esemplificato da Wittgenstein con questa immagine: vedo un cane più grande di qualsiasi cane mai visto in precedenza. In questo modo posso dire “mi meraviglio”, perché potevo benissimo immaginare che le cose non stessero così come le ho viste.

 

Il caso della meraviglia metafisica invece riguarda asserzioni del tipo “stamane sono uscito di casa e mi sono meravigliato dell’esistenza del mondo”. Questo modo di meravigliarsi per Wittgenstein non ha senso: è impossibile e contradditorio; non posso meravigliarmi per l’esistenza del mondo, poiché non posso immaginarlo come non esistente. Siamo proprio sicuri che sia contraddittoria ed impossibile la meraviglia metafisica?  Nell’eventualità della meraviglia logica ciò che va incontro a diversificazione è l’esperito. Ma nel caso della meraviglia metafisica?

 

Non possiamo negare che essa accada. A chi non è capitato di meravigliarsi dell’ovvio? Si potrebbe obiettare che potrebbe trattarsi di un semplice moto di buon umore che ci illude talvolta. Ma anche il buon umore rientra nella casistica di diversificazione che mi pare agisca nel modo della meraviglia metafisica. Se la meraviglia logica è causata dalla diversificazione dell’esperito (rispetto a come era rappresentato dalle nostre aspettative), la meraviglia metafisica è invece causata da una diversificazione dell’esperire. Dell’atto insomma.

 

Il mondo è sempre lo stesso mondo, pur nelle sue variazioni. Non possiamo pensare un mondo non esistente, in definitiva non possiamo pensare il nulla.

 

Può capitare talvolta di recuperare una visione virginale delle cose. Come quando l’onda del mare, al passare della notte, scopre la parte di sabbia nascosta. Così la nostra percezione è sempre dinamica, in modifica perpetua. Un aggiornamento inconscio, un basso continuo che varia il suo ritmo, incontrando soluzioni diverse (pur essendo variazioni di un identico che è il mondo che permane).

 

Quando l’evoluzione della nostra visione - del nostro sguardo sulle cose - prende un’impennata improvvisa, oppure più semplicemente quando emergiamo dalla disattenzione e riconosciamo la diversificata attitudine a guardare: allora in quel momento nasce la meraviglia metafisica, che ha come oggetto lo stesso mondo non modificato, ma ha come soggetto un occhio che ha cambiato lente. Così anche il buon umore riesce benissimo a rientrare in questa casistica.

 

Infine ho pensato che questa meraviglia possa avere la sua genesi in rapporto alla morte. E se la meraviglia per l’esistenza del mondo fosse una meraviglia generata nel contrasto vita-morte? Nel vedere la morte intorno, la vita che resiste e se ne fa contraddittorio acquista più definizione. In mezzo a cose che incontrano il silenzio e l’immobilità, il proprio corpo che continua a deambulare, a sentire, si sente in qualche modo sotto una specie di diversità. 


Nel personale la morte è certezza (non potrà non comparire), ma aspettata e “guardata” con incertezza. Osservata sull’esterno (nel vegetale e nell’animale) si appropria invece di una certezza che non è certezza solo del suo esserci, ma certezza anche del suo manifestarsi, qui ed ora. Vedere la morte riecheggia nel corpo vivo che agisce quello sguardo. Vivere la morte è piuttosto vivere il dolore e la consapevolezza appena precedenti, dunque non è viverla veramente. Eppure la fine è nota.

 

La meraviglia, tornando al principio del nostro discorso, si fa avanti in questo crescere di esperienza. La vita, col trascorrere del tempo, si fa più definita, ma meno sicura – più per il numero di morti osservate fuori, non per un discorso di vecchiezza del corpo. Il suo continuare e farsi opposto delle morti viste (e, oserei dire, in qualche modo apparenti) desta la meraviglia per il fatto che lei contrasta quell’ombra, quel fenomeno così fantasmatico come è la morte, che mai è pienamente compresa (in senso intellettivo e pure materiale, nel senso di prendere in sé).

 

In confronto a tanto sprofondare nell’invisibile (ciò che c’è, ma non si vede. Una cosa c’è, dopo un certo momento non c’è più, anche se in qualche modo se ne continua a sentire la traccia nella memoria: sia personale che collettiva) il visibile si fa pian piano piccolo e ridicolo. Ma quando la vista si riapre sul reale, sulla vita, allora ecco che si spalanca quella “finestra senza imposte” che è la meraviglia.

 

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Commento su IBS del 07-07-2010 a recensione del libro "Lezioni e conversazioni sull'etica, l'estetica, la psicologia e la credenza religiosa" di Ludwig Wittgenstein (ed Adelphi, 1976) 

 

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