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30 marzo 2018 5 30 /03 /marzo /2018 09:11

Oggi 30/3/2018 facciamo memoria di un venerdì di quasi 2000 anni fa, cioè celebriamo il "venerdì santo" e qualche riflessione è d'obbligo.

 

Per prima cosa penso si debba distinguere tra il come è morto Gesù, il fatto della morte e il perché abbia deciso di concedersi alla morte.

 

  1. Il come infastidisce la nostra sensibilità odierna ma nulla aggiunge o toglie al fatto che sia morto. La crocifissione nel mondo romano non era un fatto eccezionale. Certo era frutto di una crudeltà di sapore primitivo. Aveva persino un nome istituzionale "servile suplicium" e non era affatto rara, ne è autorevole testimone la Via Appia, poiché lunga e quindi capace di contenerne tanti in contemporanea.  

 

  1. Il fatto della morte.

 

E' naturale che un uomo muoia. Ed è stato così anche per Gesù, che volle essere uomo. Il fatto della morte di un uomo addolora ma non è assurda. Perché allora fingere di meravigliarsi della morte di Gesù, o piangere inventando le più folcloristiche delle via crucis? Non siamo delle prefiche, cioè non siamo pagati a centilitri (di lacrime), inoltre piangere non dà meriti tutt'al più serve a chi piange, perché l'aiuta a sciogliere i propri grumi allo stomaco.

 

Inoltre la morte è ineluttabile. Lo sappiamo, ma se la morte è ineluttabile non si racconti che chi muore dona la sua vita, qualsiasi ne sia il motivo. La vita non si dona, si può accettare di anticipare la propria morte e, anticipandola, il dono si configura nel rinunciare a qualche giorno della propria vita. Allora la domanda diventa '''quanto vale un giorno per un uomo?''.

 

Infine c'è da considerare che la morte di Gesù non è stata naturale. Non è morto nel suo letto, né per malattia né per vecchiaia, e non è morto per incidente. Si è dato alla morte, in qualche maniera si è suicidato. Non l'ha fatto, come solito nei suicidi, per depressione o per  schizofrenia o per impulsività o per ottenere un controllo del proprio destino e alleviare le proprie sofferenze.  L'ha fatto da paladino, per risorgere e permetterci di risorgere sulla sua scia.

 

  1. Quindi il focus su quel venerdì si sposta, diventa "perché quel venerdì di due millenni fa merita di essere ricordato"?  Non ho risposte universali, che forse non ci sono. Certo ho una mia opinione, come ognuno di voi. Questa è la Pasqua.  
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15 gennaio 2018 1 15 /01 /gennaio /2018 18:38

Nel "Padre nostro" recitiamo " rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori".

 

Parlando di debiti, i dizionari attribuiscono tanti significati alla parola debito

1. ciò che si deve restituire ad altri

2. obbligo morale: un debito di coscienza

3. forma abbreviata di debito formativo

4. nel linguaggio evangelico, il peccato

 

Ma all'epoca di Gesù cosa significava?

 

In un'ampia monografia attraverso cinque millenni di storia umana Graeber, nel suo monumentale studio (David Graeber, Debito. I primi 5000 anni, Saggiatore, 2012)  offre una trattazione della storia del debito considerata da un punto di vista antropologico e non economico, dal momento che il concetto di debito ha una storia e una rilevanza antropologica molto anteriore alla nascita di un'economia monetaria, precedendo, addirittura, la stessa invenzione della moneta e ha da sempre impegnato l'umanità e le società in intensi conflitti sociali. Infatti già ai tempi delle civiltà mesopotamiche, la società aveva dovuto elaborare rimedi per evitare la destabilizzazione sociale indotta dai conflitti generati dal debito: a questa funzione assolvevano, infatti, i ricorrenti giubilei con cui si rimettevano le pene di interi strati della popolazione, sollevandole dalla riduzione in schiavitù in cui erano cadute per il peso dei debiti.

 

Perché mi pongo la domanda sul significato del termine "debito" nel linguaggio del primo secolo, quando visse Gesù e quando scrissero di Gesù. Cioè prima che l'interpretazione della chiesa desse al termine "debito" l'interpretazione di offesa causata dal peccato, il peccato interpretato come offesa a Dio che il perdono tra noi uomini in qualche maniera equilibra.

 

Ma è un'interpretazione corretta o è solo una lettura di comodo?  Non entro nel merito, ma ho la sensazione che questa interpretazione ufficiale svilisca il senso della frase.

 

L'immagine che il "Padre nostro" proietta è molto semplice, chiediamo a Dio, al Padre, di condonarci un debito contratto con Lui, cioè riconosciamo di aver ricevuto qualcosa di suo in prestito. Qualcosa di cui godiamo, da cui abbiamo e stiamo ricavando beneficio, ma che non è nostro ed è da restituire. Una restituzione inevitabile e obbligata e la cui inadempienza, nella mentalità di allora e prevista per legge, ci si giocava la vita, poteva comportare anche la schiavitù.

 

L' interpretazione ufficiale di debito causato da offesa, per cui si invoca "paziente perdono", non è errata ma è almeno incompleta. Essa trascura il fondamentale concetto legato al debito, cioè l'oggetto del prestito e i concetti correlati:

  • il prestito è un oggetto, un oggetto ricevuto in comodato d'uso e non in proprietà;
  • il motivo, a che titolo per cui ci è stato fatto il prestito;
  • la restituzione, è da restituire e all'atto della restituzione ne sarà valutato rendimento e stato d'uso.

 

La domanda allora diventa: che cosa abbiamo ricevuto da Dio di cui siamo debitori?

 

La risposta, per chi crede, non può che essere "tutto". Da Dio abbiamo ricevuto l'esistenza, il tempo, l'intelligenza, l'astronave terra che ci nutre, e così via. Sono numerose nel vangelo le parabole che si aprono su questa tematica e cercano di farvi luce: i vignaiuoli ingrati che uccidono il figlio del padrone, o anche la parabola dei talenti, talenti da cui Lui pretende una resa.  

 

Il respiro della frase inserita nel "padre nostro" assume così altri contorni, diventa un atto di fede universale, un riconoscimento al Dio che ha riempito le nostre mense, che ci dà l'ossigeno e l'acqua, che ha creato questo sottile strato di fertile terra dove corriamo e cantiamo e amiamo.

 

Due sono i compiti che ci vengono richiesti: curare il dono e condividerlo. Curarlo perché l'abbiamo solo in comodato d'uso e dobbiamo restituirlo sano. Condividerlo perché la nostra generosità sarà la misura della sua generosità e comprensione all'atto della restituzione. Anche su questo tornano alla mente parabole evangeliche esplicative, tipo quella del servo disonesto che usa i doni non suoi per farsi degli amici o quella del servo condannato perché condonato non condona.

 

Queste sono le ragioni per cui trovo l'interpretazione ufficiale se non errata almeno limitata e limitante. E' facile parlare in termini di ricatto (tu perdoni perché io perdono e io perdono perché tu perdoni), forse è giusto ma è una visione negativa della vita, è il disimpegno da una visione di fede vera che coinvolga l'universo intero. Dimentichiamo l'universo-dono di cui ci è affidata custodia e sviluppo, il debito con Dio è questo.

 

Inoltre, prestandoci l'oggetto ci consegna anche un metodo di lavoro. Il suo esempio di  generosità  è un metodo di lavoro, e chiede che sia anche il nostro metodo di lavoro. Siamo squadra e l'allenatore non ama i liberi battitori, ci vuole come lui.

 

Quando diciamo "rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori", non diciamo solo che vogliamo essere buoni, ma confessiamo la nostra visione verticale dell'esistenza, cioè confessiamo di credere in un Dio creatore e signore dell'universo, sempre presente e attento, e la nostra appartenenza a una squadra coesa.  

 

 

 

 

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