Un'opinione fuori dal coro
1 giugno 2013
Ai funerali laici di Franca Rame, Dario Fo ha recitato un suo monologo inedito di circa sei minuti, con la solita mimica, la solita comicità e, naturalmente, il solito successo e i soliti applausi. Da accapponare la pelle. Non per il contenuto, ché anzi a suo modo ha voluto essere un’orazione funebre in onore della moglie, ma per la forma: della morte non si può e non si deve fare spettacolo.
Del resto, è questa la ragione che nei tempi moderni ha vietato le esecuzioni capitali in pubblico.
I funerali hanno un preciso significato per i cristiani. Per loro la morte è solo il passaggio ad una vita migliore, nel seno di Dio. Dunque i commenti riguardano solo il dolore di coloro che hanno perso una persona cara e potrebbero tuttavia sperare – a credere al parroco – nella felicità di rivederla “in Cielo”.
Viceversa i funerali hanno un significato ben più angoscioso, per i non credenti. Essi vivono con la coscienza della fine e con essa di tutto ciò che abbiamo sperato, pensato, realizzato. La morte dà la dimostrazione definitiva dell’assurdità della vita, la riprova emotiva ineludibile del nostro infame ultimo destino. A che scopo chiamarsi Wolfgang Amadeus Mozart ed essere il più grande genio musicale se poi, dopo appena qualche decennio, mentre l’umanità intera venera quella montagna di bellezza, l’interessato non la sente più, non l’ammira più, non ne sa più nulla?
Il morto non ha più rimpianti ma i sopravvissuti possono ancora condividere l’angoscia che egli ha sentito, nel corso di tanti anni, pensando al fatto che la propria intelligenza, la propria sensibilità, il proprio mondo si sarebbero spenti per sempre, insieme col suo cervello.
La morte non è terribile come stato, è terribile come “anticipation”, come idea del suo verificarsi.
La cosa più terribile della pena di morte non è il fatto che si debba morire, destino comune, è la nozione della data dell’esecuzione.
E c’è il dolore di chi rimane. Di chi ha perduto la possibilità di manifestare il proprio affetto a qualcuno, e la gioia di vederlo ricambiato; è una luce che si è spenta. La morte scava un solco invalicabile che ci separerà per sempre da chi non c’è più, e ci ricorda che un analogo solco un giorno ci separerà da noi stessi, senza che una lacrima possa uscire dalle nostre orbite vuote.
Se qualcuno, dopo tutte queste riflessioni, ha ancora voglia di trasformare la morte in occasione di spettacolo, è semplicemente diverso da noi. The show must go on perché gli spettatori hanno pagato il biglietto, perché dello show i colleghi vivono:
ma qui, che necessità c’era, di recitare, di aspettare l’applauso?
Brano estratto da http://pardo.ilcannocchiale.it/2013/06/01/il_cattivo_gusto_ai_funerali_d.html
firmato da Gianni Pardo, giannipardo@libero.it
1 giugno 2013