Il vero problema della fede non credo sia Dio, la Sua esistenza o la Sua attività creatrice.
In fin dei conti m'interessa poco la sua eternità o la sua potenza. Ho concluso che è puro esercizio mentale. Avrebbe senso solo se rispondesse al "quid prodest" ("a cosa giova") qui e ora.
Il vero problema della mia fede è la conoscenza di me, del perché si è formato questo aggregato di cellule che mi costituisce, e quindi di quali siano i miei bisogni "reali".
Le mie giornate non si riempiono di cielo ma di :
-
- che cosa mi serve?
- che cosa mi succederà?
- dove sto andando?
- che cosa è meglio?
- etc.
Pertanto trovo vere le parole di un certo ulixes su WEB. Sono riflessioni semplici, anche semplicistiche, parole non certo da professionista della filosofia, ma concrete. Egli scrive
Coltiviamo tenacemente l’illusione di mantenere la nostra identità, non cambiare mai, riuscire a restare noi stessi e averne coscienza, invece il mutare delle nostre cellule, il cambiamento fisico e psichico a volte impercettibile, ma inesorabile nel suo continuo evolvere è il solo elemento costante che caratterizza il nostro esserci, tanto che, essenzialmente, non siamo, ma diventiamo.
In effetti l’aforisma contiene un tranello: evolvere non significa affatto perdere l’identità...se non in casi patologici.
Probabilmente è in questo il grande vantaggio (o svantaggio) della nostra specie rispetto ai cugini minori: non solo abbiamo coscienza di ciò che ci accade, ma anche abbiamo coscienza di avere coscienza. In particolare avendo coscienza della nostra personale evoluzione...abbiamo conseguentemente coscienza di restare noi stessi.
Le cellulle del nostro corpo e del nostro cervello cambiano continuamente...si rigenerano...ma non cambia la mente: è solo che ogni cellula dell’organo cerebrale lascia in eredità il gene della coscienza alla cellula sostitutiva. E’ in tal modo che l’autocoscienza non ha un sito di residenza, non è una memoria registrata su nastro è un processo continuo di dieci miliardi di piccoli robot incoscienti ed orientati, che si tengono per mano e fanno girotondo, ma non un unico girotondo, tanti girotondi, intrecciantisi fra loro in infinite modalità come infiniti sono i caratteri degli uomini che sottendono di cui costituiscono il processo elucubrante.
Certo che non è che una metafora, ma cos'altro dire del processo costituito da miliardi di piccoli robot incoscienti, interagenti, che formano la nostra coscienza?
Abbiamo così pensato, nella irrazionalità della pulsione emotiva, al miracolo dell’anima immortale...
Non son convinto che "l'anima immortale" sia poi così irrazionale.
Forse la fede è proprio questa. Credere che abbiamo un'anima. Un'anima al di là del parkinson o dell'Alzheimer, indipendente da corpo e cervello. Un'anima buttata oltre. Oltre la pazzia, oltre la malattia, oltre il disfacimento, oltre non solo il corpo ma anche oltre la mente. Oltre... verso l'infinito.
Fede in qualcosa di mio, in qualcosa di stabile, in qualcosa per cui valga la pena battersi, che renda utile l'inutile (la povertà e il dolore-penitente non sono valori, ma perdite, sconfitte) e dia sapore all'altruismo senza ritorno (il Padre vede e quindi?).
E' la scoperta dell'anima il tesoro trovato di cui ci racconta il Vangelo?