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20 marzo 2025 4 20 /03 /marzo /2025 06:27

 

Articolo apparso sul  quotidiano "La Stampa

" del 20 Marzo 2025  

 

I naufraghi dello spazio 

al ritorno da un altrove fatto di spaesamento e stupore

Il tempo diventa privo di dimensioni, la straziante nostalgia di casa degli astronauti ricorda quella dei soldati in guerra

 

di NICOLETTA VERNA



 

La vicenda di Sunita Williams e Butch Wilmore, i due astronauti partiti per una missione che doveva durare otto giorni e sono rimasti bloccati nello spazio per nove mesi, rimanda a una dimensione dello spazio (ma anche del tempo e soprattutto dell’anima umana) ricca di fascino e significati: l’altrove.

“Altrove” è una parola unica, proprio nel senso che non ha sinonimi. Se vogliamo definirla dobbiamo ricorrere a perifrasi, “in un altro luogo”, “da un’altra parte”. L’etimologia è aliter ubi, “diversamente dove”. Diversamente significa “altrimenti”, e dunque non ci parla del non qui, della mancanza, bensì di un’alternativa. Chi è altrove è nel suo dove diverso. Può essere una condizione mutevole o duratura, voluta o obbligata, ma indica sempre una possibilità.

 

Tale possibilità evoca sentimenti diversi e contrastanti. Il primo e forse più immediato è lo spaesamento, ovvero l’impatto dell’altrove sulla nostra sfera sensibile, in tre declinazioni che sono lo stupore, la meraviglia e la paura. Lo stupore e la meraviglia ci dicono che sentirsi spaesati non è per forza qualcosa di negativo: spesso anzi proviamo un senso di libertà, di sospensione dalle cose e dalle responsabilità che ci rende più leggeri e ci permette di godere con stato d’animo puro le esperienze nuove. Lo spaesamento, però, può anche generare angoscia. È quel tipo particolare di paura che ci coglie quando avvertiamo che qualcosa ci è al tempo stesso estraneo e familiare: il conturbante di Freud, il sentirsi stranieri nel senso di Camus ovvero l’essere estranei, oltre che al mondo, anche a sé stessi.

 

L’altrove spaziale e temporale

L’altrove, poi, non è concetto solo spaziale, ma anche temporale. Nel dover ridefinire abitudini e routine dobbiamo modificare anche la nostra concezione del tempo, com’è successo a Williams e Wilmore, per i quali le ore e i giorni si sono improvvisamente dilatati all’inverosimile. Il crollo dei consueti punti di riferimento rende la cognizione del tempo indefinita, vaga, e questo (ancora una volta) destabilizza, poiché il tempo umano ha bisogno di parametri precisi ed è alieno al concetto di eternità. Ne L’isola del giorno prima, romanzo che fin dal titolo pone al proprio centro l’altrove spaziale e temporale, Umberto Eco scrive: «stabilendo essi il nostro giorno e la nostra notte, il sole e la luna furono il primo e insuperato modello di tutti gli orologi a venire i quali, scimmie del firmamento, segnano il tempo umano sul quadrante zodiacale, un tempo che non ha nulla a che vedere con il tempo cosmico: esso ha una direzione, un fiato ansioso fatto di ieri oggi e domani, e non il calmo respiro dell’Eternità».

 

L’umanità, dice ancora Eco, ha bisogno che il tempo non sia eterno, perché questo porterebbe all’inutilità o all’insensatezza di Dio. Ma nell’altrove il tempo diventa spesso privo di dimensioni, di appigli, di riferimenti: è quello che avviene in vacanza, dove i primi giorni sembrano eterni e gli ultimi fugaci. Ed è quello che avviene, in un ambito ben diverso e drammatico, ai soldati al fronte. «Si marciava da giorni a piccoli scaglioni per strade secondarie e si andava da villaggio a villaggio senza misura di tempo o di distanza», scrive Mario Rigoni Stern ne Il sergente nella neve. Nel perdere la cognizione del tempo e dello spazio, i soldati perdono sé stessi. E in questo risiede uno degli aspetti più disumanizzanti della guerra.

 

Straziante nostalgia di casa

A questo si lega anche l’ultimo aspetto dell’altrove, la nostalgia, e in particolare la nostalgia di casa. Williams e Wilmore hanno dichiarato che nella base spaziale si sono sentiti al sicuro, ma a un certo punto hanno avvertito il bisogno straziante di tornare a casa. La nostalgia nei secoli scorsi era ritenuta una malattia: alla fine del Seicento scoppiò una vera e propria epidemia tra i mercenari svizzeri che in molti casi li portò alla morte. I soldati si lasciavano morire di fame per lo struggimento, altri tentavano di tornare a casa e venivano giustiziati come disertori. Per descrivere tale affezione fu inventata una nuova parola, “nostalgia” – dal termine greco nostos (ritorno) e algos (dolore): il dolore feroce legato all’impossibilità di tornare dall’altrove.

 

Durante la guerra civile americana la pericolosità di questo “morbo” era talmente nota e assodata che alle bande musicali dell’esercito era vietato suonare Home Sweet Home, mentre nel Novecento, il periodo in cui la rete ferroviaria in rapida espansione e poi la linea telefonica accorciarono le distanze, la nostalgia non fu più vista come patologia ma acquisì un senso romantico e quasi dolce. Oggi ci troviamo, forse, a una fase di reflusso. Grandi temi come l’immigrazione (vista sempre di più anche nei suoi aspetti punitivi e crudeli), l’isolamento di fasce crescenti di popolazione, i nazionalismi estremi ci ricordano che l’altrove può essere un luogo tremendo e inospitale. Sta a noi renderlo accogliente e confortevole, per placare la nostalgia e la paura di chi si trova a farvi approdo.

 

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