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23 giugno 2025 1 23 /06 /giugno /2025 08:10

Al capitolo VI del libro sotto citato, trovo questa sintesi molto ben articolata di Storia del primo periodo della religione cristiana.

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Per cercare di comprendere in che senso Nicea abbia rappresentato una svolta, bisogna tornare alla figura stessa di Gesù di Nazaret.

La questione del rapporto tra il Gesù storico e il Cristo della fede si scontra con un problema fondamentale: salvo rare testimonianze esterne, le fonti principali sono i quattro vangeli, che tuttavia non sono stati scritti con un intento storico e leggono gli eventi alla luce della fede nella risurrezione di Gesù.

Tra l’altro, l’analisi storico-critica ha dimostrato che i vangeli «canonici», quelli cioè che la chiesa ha inserito nel canone del Nuovo Testamento, sono anche i testi più antichi. Non ci furono scelte arbitrarie, il loro uso come testi sacri nelle comunità cristiane è provato fin dal II secolo. Un papiro della prima metà del III secolo – siglato P45 e conservato in parte a Dublino, nella collezione Chester Beatty, e in parte nella biblioteca nazionale di Vienna – contiene brani dei quattro vangeli, appunto, e degli Atti degli apostoli: un codex (il libro come lo conosciamo noi) e non un rotolo (volumen), proprio come un’edizione contemporanea.

I cosiddetti apocrifi sono tutti posteriori ai canonici. Secondo la maggioranza degli studiosi, il vangelo più antico sarebbe quello di Marco, seguito da quelli di Matteo, Luca e Giovanni. Nessun testo nella storia dell’umanità è stato studiato e dibattuto più di quei quattro libretti che assommano 64.327 parole greche, in tutto circa duecento pagine. La materia è sterminata come la bibliografia che ne tratta. Ma, se non altro, si può cercare di ripercorrere in sintesi alcuni dati ormai acquisiti dalla ricerca storica ed esegetica.

 

Un ebreo marginale

Il cristianesimo, come abbiamo visto, nasce all’interno dell’ebraismo. Era ebreo il rabbi di Nazaret chiamato Yehoshua ben Yosef, Yeshua nella forma abbreviata, nato a Betlemme tra il 7 e il 6 a.C. – il monaco Dionigi il Piccolo commise un errore di calcolo, quando nel VI secolo definì il calendario a partire dalla nascita di Gesù – e morto crocifisso a Gerusalemme quando aveva circa trentasei o trentasette anni: la data considerata più probabile è il 7 aprile dell’anno 30.

Erano quindi ebrei la madre Maria e il padre legale Giuseppe, erano ebrei i discepoli, coloro che costituirono la comunità cristiana primitiva, l’«apostolo delle genti» Paolo di Tarso e gli stessi evangelisti. Solo su Luca c’era qualche dubbio, la tradizione parlava di origini pagane ma tra gli studiosi si ritiene da tempo più probabile che il medico e collaboratore di Paolo fosse un ebreo ellenista di Antiochia.

Gesù conosceva l’ebraico, la lingua della Torah che veniva praticata nelle discussioni colte, e può averlo usato quando entrava nelle sinagoghe e si confrontava con scribi e farisei. Se il latino era la lingua parlata quasi solo dagli occupanti romani, è probabile che praticasse anche il greco, la lingua franca dell’impero che dagli ebrei veniva usata negli scambi commerciali e per comunicare con i pagani, e con la quale potrebbe essersi rivolto al prefetto della Giudea, Ponzio Pilato.

La sua lingua materna era comunque l’aramaico, che dopo l’esilio babilonese aveva finito per sostituire l’ebraico nella vita quotidiana, in Galilea come in Giudea e in tutto il Vicino Oriente: tanto che alcuni libri della Bibbia posteriori all’esilio, come Qohelet, sono in ebraico ma mostrano un’impronta aramaica mentre altri, Esdra e Daniele, hanno alcuni capitoli scritti in aramaico. Del resto gli esegeti hanno notato tracce di espressioni idiomatiche aramaiche negli stessi vangeli, scritti in greco, e in Marco compaiono direttamente parole aramaiche, come quelle pronunciate da Gesù nel racconto della risurrezione della figlia di Giairo: talithà koum, «fanciulla, alzati».

John Meier, biblista statunitense, ha dedicato a Gesù di Nazaret una monografia in cinque volumi che ha intitolato Un ebreo marginale. Questo è l’ambiente di Yeshua. Il figlio del falegname, divenuto un rabbi itinerante, aveva vissuto la sua attività pubblica tra le strade e i villaggi della Galilea e poi della Giudea, fino ad arrivare a Gerusalemme ed essere condannato a morte dall’autorità romana, nella forma più crudele e infamante: la crocifissione.

 

Il Kerigma (L’annuncio)

Eppure, dopo la morte di quell’«ebreo marginale», era accaduto qualcosa di inaudito. I discepoli avevano cominciato a proclamare quello che in greco sarà definito il kérygma, l’«annuncio» della risurrezione che custodisce il cuore del cristianesimo. La prima testimonianza scritta del kérygma risale all’anno 57, una lunga lettera in greco che Paolo invia alla comunità di Corinto e nella quale riassume: «Vi ho trasmesso ciò che anch’io ho ricevuto: Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture e fu sepolto. È risorto il terzo giorno secondo le Scritture». Paolo di Tarso si è convertito intorno all’anno 35, erano passati appena cinque anni dalla crocifissione di Gesù. L’annuncio che aveva «ricevuto», come scrive nella Prima lettera ai Corinzi (15,3), si era diffuso dagli apostoli alle prime comunità.

I racconti scandivano le catechesi e si ipotizza siano stati fissati in raccolte scritte che custodivano le prime narrazioni della vita, morte e risurrezione del Maestro. A queste si sarebbero aggiunte delle collezioni scritte di lóghia, i «detti», ovvero le parole di Gesù, qualcosa di analogo al Vangelo di Tommaso, un apocrifo in copto tradotto dal greco e costituito da centoquattordici frasi in parte corrispondenti a quelle dei vangeli canonici.

Sull’esistenza di una collezione simile si basa la cosiddetta teoria delle due fonti. Oltre a un «testo primitivo» di Marco, in origine ci sarebbe stata questa ipotetica raccolta di detti, chiamata convenzionalmente Q (dal tedesco Quelle, «fonte»). Due fonti, appunto, da cui avrebbero attinto Matteo e Luca. Con Marco questi vangeli sono poi stati detti sinottici perché, posti uno accanto all’altro, sono così simili da poter essere abbracciati «insieme» (syn) con un solo «sguardo» (ópsis).

Il Vangelo secondo Giovanni sarebbe stato scritto alla fine del I secolo e si distingue dagli altri tre perché mostra di avere fonti proprie e di essere quindi il frutto di una tradizione indipendente, secondo alcuni la più antica di tutte. In ogni caso, c’è un primo momento nel quale la vita e le parole del Maestro vengono raccontate in forma orale e fissate in raccolte scritte, in aramaico o in ebraico. Si trattava però di diffondere il più possibile la «buona notizia» e così lo si fece in greco, la koinè o lingua «comune» del tempo, come oggi si sceglierebbe l’inglese di base parlato in tutto il mondo.

Ciascuno dei quattro vangeli nasce rivolto anzitutto ad ambienti particolari: secondo l’ordine canonico, Matteo a un pubblico ebraico, Marco a un ambiente pagano forse romano, Luca alla diaspora giudaica nel contesto greco e romano, Giovanni, pur fortemente radicato nel contesto ebraico, al mondo ellenistico. La stessa Gerusalemme, del resto, era da tempo una città fortemente ellenizzata, e la conoscenza del greco non era certo limitata ai circoli aristocratici e intellettuali. Molti lo masticavano per le necessità del commercio, così come i tanti ebrei della diaspora venuti a stabilirsi nella capitale giudaica.

Il passaggio dall’ebraico e dall’aramaico al greco, con relativa contaminazione di linguaggi e culture, accade insomma fin dall’inizio del cristianesimo. È uno sforzo di traduzione e interpretazione compiuto con scrupolo, come dimostra l’analisi dei testi evangelici. Per esempio, per dire la compassione o la misericordia di Gesù, viene usato splanchnízesthai, un verbo che esprime un amore viscerale, materno, poiché la parola greca splánchna designa le viscere o, in modo più specifico, l’utero: l’esatto equivalente dell’ebraico rahamim, la parola biblica che sta per misericordia ed è il plurale di rehem, «utero» o «viscere», appunto.

Bisogna aggiungere un elemento decisivo: la versione greca dei Settanta, che è la forma in cui Paolo e gli evangelisti citano la Scrittura già trasposta nell’universo culturale ellenistico. È in questo sforzo di traduzione e di comprensione che emergono vocaboli e concezioni destinati ad avere un ruolo decisivo, tre secoli più tardi, nella definizione del Credo di Nicea.

(Gian Guido Vecchi, Giovanni Maria Vian “La scommessa di Costantino. Come il Concilio di Nicea ha cambiato la storia” Mondadori, 2025)

 

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