Nella Bibbia troviamo un libro titolato “Giobbe”.
Giobbe è un personaggio di fantasia con cui Israele indaga sui rapporto tra Dio, il Grande, e la "mia" vita reale, concreta, nei suoi alti e bassi, soggetta a gioie e piaceri ma anche a sofferenze o ingiustizie.
Considera la dottrina dei saggi, di allora e di oggi, che vedono sempre una correlazione tra la moralità di una persona e il suo benessere, e questo compito è affidato ai tre amici.
Ma l’autore di Giobbe, in perfetto stile ebraico quello che ama dialogare con Dio, ci indirizza e accompagna a riconoscere un'altra via, la sapienza in Dio. Niente accade per caso, tutto ha una finalità, tutto è inserito in un progetto sapiente, forse doloroso per l’individuo o il gruppo, e dove non tutto del Suo modo di agire si può capire.
La tesi del racconto si compendia quindi nell'affermazione finale: una sapienza così grande, che dirige l’intero universo, deve certamente saper dirigere anche il corso degli eventi umani, benché l’uomo non lo percepisca. Il libro diventa così un invito alla fede, alla fede autentica, quella senza prove, dimentica di Aristotele e dei miracoli, dove regna solo la fiducia, come quella dei bimbi.
L’uomo moderno, che ha scoperto i segreti della materia, trova che quasi tutte le meraviglie della natura, ricordate in questo libro che risale a 2500 anni fa ed è inserito nella scienza di allora, sono dei piccoli fenomeni insignificanti o semplici credenze.
Ma anche agli scienziati di oggi Dio potrebbe porre tante domande che li lascerebbero tutti senza risposta, proprio così come rimase Giobbe. E se questi scienziati avessero un po’, ma solo un po’, di modestia, sarebbero costretti a ripetere le stesse parole di Giobbe:
Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo;
sono cose per me troppo meravigliose e io non le conosco”. (42:3).
Riporto qui un testo che hanno aiutato ed alimentato le mie riflessioni. E’ un testo reperito su web, libero da copyright, che sintetizzo in libertà ma con onesta fedeltà. E’ parte di un corso tenuto presso la Facoltà biblica in Milano titolato "esegesi da ketuviym” del dr. Gianni Montefameglio.
La premessa
Il monologo di Giobbe (cap. 3) è la scintilla che fa scaturire tutta la discussione successiva: Giobbe, senza toccare direttamente Dio, maledice il giorno della propria nascita e dichiara che sarebbe stato meglio per lui morire come un aborto finendo nel soggiorno dei morti, anziché patire le sofferenze che gli sono piombate addosso. È un quadro che mostra tutta l’acerbità di una persona che si sente colpita senza ragione.
Al linguaggio così acceso di Giobbe ribattono i suoi tre amici con tre discorsi ciascuno.
1 - La tesi degli amici.
Essi non fanno che ricalcare la dottrina dei saggi: vi è sempre correlazione tra la moralità di una persona e il suo benessere. Giobbe soffre dunque perché è un peccatore. Solo un colpevole può soffrire, per cui non resta a Giobbe che proclamarsi un criminale e chiedere umilmente perdono a Dio. Quest’accusa, che nei primi discorsi è solo accennata, diviene formale nel seguito del loro ragionamento.
Sembra di sentire gli apostoli di Yeshùa davanti al poveraccio che era nato cieco: “Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?” (Gv 9:2).
Comunque, la teoria dei presunti amici di Giobbe era vera solo in senso generico: il male proviene dal peccato umano. Se tutte le persone vivessero come dovrebbero, il mondo sarebbe di certo molto diverso dall’attuale. Lo sbaglio degli amici di Giobbe consisteva però nell’applicare ad un individuo ciò che è vero solo in senso generale.
1.1 La risposta di Giobbe.
Al contrario dei suoi amici, Giobbe parte dal caso individuale e concreto: si muove partendo dalla sua esperienza. Perché mettere al mondo un uomo che deve soffrire tanto? Questa la domanda che Giobbe si fa. E arriva a questa conclusione: Dio lo tratta da nemico, e lui non ne sa neppure il perché.
Nella sua fede in Dio quale Padrone del mondo, Giobbe pensa di essere nemico di Dio forse per natura, come il grande mostro marino che Dio debellò nel suo atto creativo:
- “Sono io forse il mare o un mostro marino che tu ponga intorno a me una guardia?”.
- “Signore, perché dai importanza all’uomo? Perché gli presti attenzione? Perché lo controlli ogni giorno e ogni momento lo metti alla prova? Fino a quando terrai gli occhi su di me? Non mi lasci neppure ingoiare la saliva!
- Se ho peccato, dimmi che cosa ti ho fatto.Tu che controlli gli uomini, perché mi prendi come bersaglio, e ti sono tanto insopportabile? Perché non perdoni i miei errori e non cancelli le mie colpe?
- Presto tornerò alla polvere. Mi cercherai, ma io non ci sarò più”.
Se Dio fosse un avversario umano, Giobbe potrebbe appellarsi ad un giudice. Ma Dio è allo stesso tempo giudice e accusatore onnipotente; nessuno può obiettargli: “Che fai?”. La sua volontà è dunque la sola arbitra della giustizia.
- “Egli dice: «Chi mi convocherà?»” (9:19).
- “Io sarò condannato; perché dunque affaticarmi invano?” (9:29).
- “Dio non è un uomo come me, perché io gli risponda e perché possiamo comparire in giudizio assieme. Non c'è fra noi un arbitro, che posi la mano su tutti e due!”. - 9:32,33.
Questi passi sono ritenuti blasfemi da alcuni puritani religiosi. Costoro non conoscono la
Scrittura. Si noti, piuttosto, l’immediatezza con cui l’ebreo (Giobbe lo era per fede) si rivolge a Dio da persona a persona. L’ebreo sa anche discutere con Dio, come fece Abramo (Gn 18:20-33); sa anche lottare contro Dio, come fece Giacobbe (Gn 32:28).
Il fatto è che l’ebreo si ribella al pensiero che Dio sia pura potenza irresponsabile: un tale Dio non sarebbe più Dio. È per questo che Giobbe ammonisce i suoi amici: Dio non ha bisogno di essere difeso con le menzogne. È inutile proclamare Giobbe ingiusto, mentre, di fatto, non lo è, e Dio lo sa. Non si difende così la giustizia di Dio
È assurdo affermare che la giustizia di Dio si attui in pieno in questo mondo. Questo è un
fatto. “L'uomo, nato di donna, vive pochi giorni, ed è sazio d'affanni. Spunta come un fiore, poi è reciso; fugge come un’ombra, e non dura” (14:1,2). “L'uomo muore e perde ogni forza; il mortale spira, e dov'è egli?” (14:10). Ciò costituisce un mistero per Giobbe, eppure – lui pensa - una soluzione ci deve essere.
1.2 Giobbe viene poi folgorato da un’altra idea
“Oh, volessi tu nascondermi nel soggiorno dei morti, tenermi occulto finché l'ira tua sia passata, fissarmi un termine, e poi ricordarti di me! Se l'uomo muore, può egli tornare in vita? Aspetterei fiducioso tutti i giorni della mia sofferenza, finché cambiasse la mia condizione: tu mi chiameresti e io risponderei, tu vorresti rivedere l'opera delle tue mani”. – 14:13-15.
Sembra che Giobbe si attenda una riconciliazione prima di morire o forse anche nell’aldilà. Tuttavia, questo secondo senso è alquanto problematico.
Si tratta della replica di Giobbe al secondo discorso di Bildad. In questa replica, dopo aver
proclamato ancora una volta la propria innocenza, dopo aver elevano un ennesimo lamento per le sue sofferenze fisiche e morali, apre il cuore ad una speranza insopprimibile: Dio mostrerà pubblicamente la sua innocenza.
Proclamazione dell’innocenza di Giobbe in una visione divina. Questa è la soluzione
più semplice [sono tante le ipotesi che la storia ricorda, paradiso etc]. Quella che si adegua meglio al contesto.
Infatti,
- dopo il colloquio senza conclusione con i suoi tre amici,
- dopo che loro non lo vogliono sentire,
- dopo che la sua innocenza è derisa con la presunta prova dei mali capitatagli che dimostrerebbero la sua colpevolezza,
- dopo tutto questo, Giobbe non può sperare altro che in Dio.
Nessuno gli crede. Gli rimane solo Dio. E Giobbe presagisce che prima di morire potrà vedere Dio e ricevere così l’attestazione divina della sua innocenza.
Dopo l’intuizione che la sua innocenza sarebbe stata proclamata da Dio stesso, Giobbe torna a riconsiderare il mondo ingiusto e pieno di malvagità:
“Sale dalle città il gemito dei moribondi; i feriti implorano aiuto, e Dio non si cura di queste infamie!”. (24:12)
L’ultima replica di Giobbe è una professione di innocenza: “Se ne ho mangiato il frutto senza pagarla [la terra], se ho fatto sospirare chi la coltivava,che invece di grano mi nascano spine, invece d'orzo mi crescano zizzanie!”- 31:39,40.
A questo punto, il poeta che compose Gb commenta: “Qui finiscono i discorsi di Giobbe”. (31:40)
La condotta di Giobbe non è quella di uno stoico insensibile, ma quella di uno che soffre e che si sente ribollire dentro la ribellione. In più, egli si esprime in una poesia che ama
l’iperbole. Da buon orientale non rifugge dalle esagerazioni, che alla nostra mentalità occidentale suonano eccessive. Del resto, egli conserva la sua fiducia in Dio cui si abbandona.
Alla fine deplora la sua impazienza e chiede per questo il perdono di Dio, dicendogli:
“Ecco, io sono troppo meschino; che ti potrei rispondere? Io mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non riprenderò la parola, due volte, ma non lo farò più” (40:4,5).
“Chi è colui che senza intelligenza offusca il tuo disegno? Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; sono cose per me troppo meravigliose e io non le conosco”,
“Perciò mi ravvedo, mi pento sulla polvere e sulla cenere”. - 42:3,6.
Chi giudica blasfemo il linguaggio di Giobbe, preghi Dio che non giunga per lui il momento
dello sconforto e della prova in cui si senta solo e abbandonato da tutti, perfino inascoltato dal Signore.
Giobbe fu sincero, ma non perse la sua fede nel goèl supremo {goʾel: è, nell'antico diritto ebraico, il parente prossimo a cui incombe il dovere di difendere i suoi}. Chi critica Giobbe, forse in una situazione simile potrebbe perdere del tutto quella fede di cui ora si vanta.
1.3 Interludio
Nei capitoli 28 e 32-37 si ha un interludio che è costituito
- dall’elogio della sapienza divina (cap. 28) e
- dai discorsi di Eliu, il quale inizia a parlare all’improvviso senza alcuna presentazione e dopo quattro discorsi si ritira definitivamente nell’ombra. - Capp. 32-37.
L’elogio della sapienza non fa altro che preparare e confermare il discorso divino. I discorsi di Eliu sono un tentativo per rendere più comprensibile la tesi tradizionale degli amici di Giobbe.
Secondo questo interlocutore, il sofferente Giobbe fa male a lagnarsi di Dio,
- perché la disciplina è dolorosa ma va accolta umilmente (33:23-33);
- se l’uomo grida invano a Dio è perché non chiede con umiltà e fede, senza condannare gli altri. (34:9-16).
- Dio, così grande e sapiente quando si rivela nell’uragano e in altri fenomeni celesti, non può essere capito dalla limitatezza umana. - Capp. 36,37.
Eliu è un giovane baldanzoso (32:6) che non aggiunge nulla di nuovo al libro. In parte
accoglie la tesi degli amici di Giobbe e in parte preannuncia ciò che Dio stesso dirà.
I discorsi di Eliu seguono lo schema della discussione sapienziale degli amici di Giobbe, ma si diffondono di più e presentano il metodo rabbinico di citare le sentenze avversarie e di ribatterle:
“Davanti a me tu dunque hai detto (e ho udito bene il suono delle tue parole): …” (33:8),
“Giobbe ha detto: «Sono giusto, ma Dio mi nega giustizia»” (34:5),
“Infatti ha detto: All'uomo non giova a nulla avere la benevolenza di Dio»” (34:9),
“Credi tu d'aver ragione quando dici: «La mia giustizia è superiore a quella di Dio»?” (35:2),
… e così via.
2. L’intervento divino
Quando l’uomo tace non v’è ulteriore possibilità che quella di udire la parola stessa di Dio (38:1-42:6). Dio parla dal centro di un turbine. I suoi discorsi sono di una poesia scintillante, comunque pertinente alla discussione.
Il discorso che Dio fa non intende affatto rispondere al problema: secondo lo stile ebraico, esso vuole solo indicare che Dio è sapiente, così sapiente che non tutto nel suo modo di agire si può capire.
L’ebreo Paolo conosce molto bene questo concetto, tanto che afferma:
“Non con sapienza di parola . . . la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che veniamo salvati, è la potenza di Dio; infatti sta scritto: Io farò perire la sapienza dei saggi e annienterò l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è lo scriba? Dov'è il contestatore di questo secolo? Non ha forse Dio reso pazza la sapienza di questo mondo?
Poiché il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza, è piaciuto a Dio, nella sua sapienza, di salvare i credenti con la pazzia della predicazione. I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza . . . predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio; poiché la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini . . . non ci sono tra di voi molti sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili; ma Dio ha scelto le cose pazze del mondo per svergognare i sapienti; Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti; Dio ha scelto le cose ignobili del mondo e le cose disprezzate, anzi le cose che non sono, per ridurre al niente le cose che sono, perché nessuno si vanti di fronte a Dio. Ed è grazie a lui che voi siete in Cristo Gesù, che da Dio è stato fatto per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione; affinché com'è scritto: Chi si vanta, si vanti nel Signore”. –
1Cor 1:18-31, passim.
Sapienza di Dio e saggezza dell’uomo sono reciprocamente stoltezza l’una all’altra.
Questo concetto viene indicato con una serie di paradossi con cui si descrive la realtà così come appariva all’ebreo di allora: nessuno ne nega l’esistenza, anche se non si può comprendere del tutto.
- In una serie di domande cui l’uomo non sa rispondere,
- Dio domanda a Giobbe di chiarirgli l’origine dell’aurora, della luce, delle tenebre, del gelo, dei venti, dell’erba, della grandine e di molti altri fenomeni naturali (38:1-40:5).
- Dio domanda a Giobbe se sia stato lui a riunire le stelle di Orione e delle Pleiadi - vale a dire le sette stelle della costellazione del Toro -, così dette perché sotto il loro segno i greci iniziavano a navigare (πλέω, plèo, “navigare”, da cui appunto Pleiadi).
- Perfino gli animali fanno risaltare l’ignoranza e la debolezza umane.
“Allora il Signore rispose a Giobbe dal seno della tempesta, e disse:
«Chi è costui che oscura i miei disegni con parole prive di senno?
Cingiti i fianchi come un prode; io ti farò delle domande e tu insegnami!
Dov'eri tu quando io fondavo la terra? Dillo, se hai tanta intelligenza»”. (38:1-4).
In un secondo discorso Dio sceglie tra le sue opere terrestri l’ippopotamo e il coccodrillo per mostrare come tutto sia stato compiuto con arte superiore alla capacità umana. (Cap. 40.)
Sembra che Dio ponga una sfida a Giobbe (e a noi stessi): “Io ti farò delle domande e tu insegnami!”.
L’uomo moderno, che ha scoperto i segreti della materia, trova che quasi tutte le meraviglie ricordate da Dio sono dei piccoli fenomeni insignificanti. Ma anche agli scienziati di oggi Dio potrebbe porre tante domande che li lascerebbero tutti senza risposta, proprio così come rimase Giobbe.
E se questi scienziati avessero un po’, ma solo un po’, di modestia, sarebbero costretti a ripetere le stesse parole di Giobbe:
Sì, ne ho parlato; ma non lo capivo; sono cose per me troppo meravigliose e io non le conosco”. (42:3).
Ecco, quindi, la risposta che Dio diede a Giobbe.
Una risposta che non è una risposta, perché lascia tutto il problema aperto.
Una sapienza così grande che dirige l’intero universo
deve certamente saper dirigere anche il corso degli eventi umani,
benché l’uomo non lo percepisca.
Il poeta ispirato non tenta di rendere intelligibile il mistero del male: confessando i limiti della propria ragione si affida con fede a chi è grande e potente e sapiente tanto da dirigere un mondo così disordinato.
Il problema non ha bisogno di risposta per chi si affida con fede alla sapienza di Dio che vuole solo il bene. Questa è l’esperienza carica di significato che Giobbe fa nella teofania finale